Le ore lente del lockdown nel tempo sospeso della pandemia, un bisogno di umana connessione perennemente insoddisfatto, la solitudine di giornate trascorse con la musica dei videogiochi come colonna sonora… e il fantasma di Ennio Morricone. Quando lo spettacolo inizia dalle parole utilizzate nel press kit per presentare un album e l’artista in questione è un titano pentagrammatico, non ci possono essere dubbi: sarà un viaggio memorabile, dopo aver premuto il tasto play.
Così, quasi per uno scherzo del destino o forse chissà, come divina punizione per aver osato cercare l’Infinito in occasione dell’ultima release datata 2018, Kostas Panagiotou si è ritrovato a fissare lo sguardo sulla fatica di un presente su cui, con tempistiche e modalità diverse, si sono addensate nubi oscure e angoscianti a tutte le latitudini di un pianeta risvegliatosi improvvisamente globalizzato per incertezza e paura. Nocchiero di uno dei vascelli che negli ultimi vent’anni ha più e meglio contribuito a tracciare la rotta del funeral doom d’autore, il mastermind di origine greca ma da tempo trapiantato in Inghilterra ha sviluppato col trascorrere del tempo un approccio al genere sempre più elaborato e pronto ad accogliere suggestioni in arrivo da altri metal quadranti, mantenendo comunque un saldissimo legame col sacro fuoco degli esordi. Certo, ripensando a un Amartia o a un Journey Through Lands Unknown, qualcuno ha storto un po’ il naso quando, nel 2011, con il controverso album omonimo i Pantheist sembravano aver imboccato una strada oltremodo eretica imbarcando elementi prog e gothic, ma il citato Seeking Infinity ha subito rimesso le cose a posto, senza peraltro riportare anacronisticamente indietro le lancette del tempo. E il processo di ricerca e innovazione all’interno di un perimetro che resta ancora sostanzialmente funeral si conferma e consolida ulteriormente con questo Closer To God, per cui peraltro è assolutamente spendibile anche la definizione di doom cinematografico a cui fa riferimento la stessa band per inquadrare il platter. Tra atmosfere rarefatte e malinconici abbandoni magnificamente tratteggiati dai tappeti di tastiere distesi a profusione da Panagiotou (che conferma ancora una volta la corrispondenza di amorosi sensi con le soluzioni classiche del genere in chiave Skepticism, non a caso antichi sodali di tour leggendari), ecco allora che trova davvero un habitat ideale l’annunciato fantasma morriconiano, con la sua doppia carica paesaggistica ed evocativa/emozionale, per un approdo che non di rado varca la soglia dell’orchestralità. Indubbiamente, rispetto a un passato in cui a prevalere era la dimensione quasi liturgica e cerimoniale a celebrare una sorta di rito collettivo, Closer To God pone maggiormente l’accento sulle pieghe individuali di anime segnate da eventi che in molti casi hanno minato equilibri che si immaginavano graniticamente scolpiti, ma, al di là di un breve smarrimento al primo impatto, alla prova dei fatti questa svolta “intimista” e per certi versi eterea si rivela non meno poeticamente valida delle maestose cattedrali edificate in passato. Così, a dispetto di una sbrigativa vulgata comune che identifica nel buio e nell’oscurità i crismi imprescindibili del genere, i Pantheist esaltano tutte le caleidoscopiche combinazioni di colori declinati nelle loro tonalità meno vivide, su cui spira un’aura delicata a metà strada tra inquietudine e contemplazione capace di trasporre perfettamente in musica l’afflato cosmic annunciato dalla cover. Diretta conseguenza di siffatta cifra stilistica, il cantato riduce al minimo le incursioni dissonanti o anche solo spigolosamente orientate, con un clean e un “narrato” in grande evidenza rispetto ai passaggi in scream o growl, che tendono a loro volta quasi sempre ad accompagnare il flusso narrativo/descrittivo piuttosto che a strapparne la trama. Anche stavolta, oltretutto, l’ennesima modifica integrale della line up non pregiudica in alcun modo l’esito finale, anche perché il buon Kostas si è circondato come sempre di musicisti di prim’ordine, a cominciare dalla coppia Jeremy Lewis/John Devos (rispettivamente alle sei corde e alle pelli) in libera uscita dalla casa madre Mesmur, non a caso una delle grandi promesse della scena funeral più recente, a stelle e strisce, nella fattispecie. Prima di affrontare la tracklist, è assolutamente doveroso avvertire i naviganti che, nonostante l’annunciata leggerezza delle strutture e il consistente contenuto melodico delle tracce, il viaggio è altamente sconsigliato per chi intenda cimentarsi in ascolti solo superficiali o frammentari, trovandoci in presenza di un album nato da un’idea originaria che prevedeva un unico, chilometrico episodio (sulla scia di un Aes, a rimarcare ulteriormente le affinità con il combo di Matti Tilaeus e soci) su cui sono poi germogliate idee e soluzioni che ne hanno dilatato la durata e moltiplicato gli episodi, mantenendo però un asse portante di chiara impronta concept. Si parte allora subito in (strepitosa) ascesa con “Strange Times”, monumentale suite che sfonda abbondantemente il muro dei venti minuti senza regalare un solo attimo di calo di tensione e ispirazione, tra un lungo intro solcato da onde ambient, uno stop impreziosito da ricami d’organo che preannunciano un’esplosione di colori e una seconda parte dove trionfano i campi lunghi cinematografici, con possibile ambientazione dal western alla fantascienza, a libera scelta della sensibilità dell’ascoltatore. E’ qui il cuore pulsante dell’album, è qui l’incontro tra il doom e Morricone, è qui la prova migliore di Panagiotou dietro la macchina da presa. Quasi senza soluzione di continuità, la diafana “Erroneous Elation” offre indicazioni paesaggistiche decisamente più precise: Arizona, deserto di Sonora, una città di frontiera e l’epopea delle marce solitarie verso ovest come metafora della scoperta di se stessi, Sergio Leone avrebbe sicuramente apprezzato. Il tema portante viene ulteriormente elaborato nella successiva “Wilderness”, che ne esalta le sfumature epiche con un’andatura prima cadenzata e poi “corale” (qui applausi alla sporcatura vocale, con un growl sabbioso che impedisce alla melodia di tracimare), ma nel finale ecco il colpo di scena che tiene lontano qualsiasi ombra di prevedibilità, con un inserto teatrale che dispensa riflessi avantgarde prima di un riuscitissimo assolo dai tratti quasi solari che sfiora esiti prog. Che la luce si sia impadronita del palco, è definitivamente certificato dalla conclusiva “Of Stardust We Are Made (and To Dust We Shall Return)”, dove sono ancora le sei corde ad assumere il ruolo di protagoniste con uno spiccato timbro hard rock su cui si celebra lo spettacolare brillamento finale e la successiva, lenta ricaduta scintillante di quella polvere celeste di cui siamo fatti… e a cui siamo destinati a tornare.
Delicato, raffinato, curatissimo negli aspetti formali e nei dettagli senza per questo perdere un solo grammo di profondità, plastica testimonianza di come si possano vincere le sfide della contaminazione quando ci sono radici solide (e qualcosa da trasmettere), Closer to God è l’ennesima, clamorosa conferma dello stato di salute di una band assisa da oltre vent’anni su uno degli scranni più nobili dell’Olimpo doom. Quando, un giorno, i libri di Storia scriveranno il capitolo definitivo sulla pandemia guardando oltre i soli aspetti sanitari, ci aspettiamo di trovarlo, il nome dei Pantheist tra i riferimenti bibliografici.
(Melancholic Realm Productions, 2021)
1. Strange Times
2. Erroneous Elation
3. Wilderness
4. Of Stardust We Are Made (and to Dust We Shall Return)