Tra tutti i sottogeneri che, col trascorrere degli anni, hanno contribuito ad allargare i confini del metal-universo spingendolo in territori inimmaginabili al momento del big bang primigenio, lo sludge è probabilmente uno di quelli su cui si addensa più di qualche nube minacciosa, al punto che è sostanzialmente condivisibile l’opinione di chi da tempo ne vede i tratti di un preoccupante declino. Spiazzata dalla scissione della “corrente” atmosferica, ormai da tempo avviata a colonizzare pianeti in completa autonomia sotto gli stendardi post-metal, la componente più ortodossa figlia del distillato di doom e hardcore sembra aver perso l’antico fascino, con pochi alfieri ormai rimasti nella sala di un trono che vede ancora tra i suoi portabandiera di punta la sacra triade della Louisiana Crowbar/Down/Eyehategod, a segnalare una preoccupante mancanza di ricambio anche generazionale.
Nell’attesa di capire se si tratti di un momento di difficoltà o di una crisi irreversibile, non resta che concentrarsi sulle proverbiali eccezioni che confermano la regola e tra queste possiamo sicuramente annoverare il nuovo lavoro degli irlandesi Partholón, riapparsi improvvisamente sulle scene dopo otto anni di silenzio (se si eccettua un rapido split con i connazionali Soothsayer nel 2018) con un full-length che modifica in parte le rotte tracciate dal debut Follow Me Through Body. In quell’occasione, infatti, il quartetto di Cork si era segnalato per traiettorie di marca Neurosis e Cult of Luna declinate con un buon tasso di personalità e nessun rischio di appiattimento sui modelli (la traccia conclusiva “Hunt” è forse l’esempio migliore), per un approdo in territori post-metal ipnoticamente tormentati. Rispetto a quella prova, i Nostri ripartono con ingredienti tutto sommato non troppo alterati ma con dosaggi decisamente diversi, al punto che sarebbe un errore catalogare questo The Ocean Pours In tra gli album di stretta, o anche solo prevalente, osservanza post-. La verità è che, soprattutto nella prima parte, assistiamo a un significativo recupero delle chiavi di volta della poetica sludge, che, lo ricordiamo, prevede tra i suoi canoni imprescindibili la centralità di una materia in costante contorsione e decomposizione, illuminata da lampi sinistri che escludono momenti di abbandono o trasognata contemplazione. A muoversi sul palco è, appunto, un fiume di fango che minaccia costantemente di tracimare e travolgere tutto, emanando contemporaneamente miasmi mefitici che rendono le atmosfere dense e impenetrabili in una sorta di apocalittica anticipazione di quello che ci attende a fine corsa. Ecco allora da un lato ritmiche pesanti e cadenzate (ennesima eredità sabbathiana a sfidare con successo il volgere di lustri e decadi) e dall’altro le sei corde protagoniste di riff che non concedono quasi nulla a tentazioni melodiche, concentrandosi piuttosto sulla trasmissione costante di un senso di oppressione e affanno. L’altro elemento decisivo per esaltare ancora più convintamente il registro dello straniamento con vista su esiti claustrofobici e soffocanti è quello vocale e qui davvero i Partholón non lesinano mezzi e impegno, affidando alla coppia d’ugole Alan Setter/Daniel Howard il compito di intrecciare legami indissolubili con la scuola core di diretta filiazione punk e marcando in questo una discreta distanza sia dalla potenza evocativa di un Johannes Persson che dalla visionarietà allucinata di un Colin H. van Eeckhout. Cinque tracce dal minutaggio sostenuto per una durata complessiva che sfiora i quaranta minuti, The Ocean Pours In prende spunto da uno degli episodi più tragicamente oscuri della storia marittima irlandese, con il capitano della nave commerciale Mary Russell, William Stewart, reo confesso nel 1828 di sette omicidi tra i componenti della sua ciurma durante la navigazione verso le Barbados ma al processo giudicato non colpevole per infermità mentale. Pesantezza e aggressività giocano subito la loro partita senza vinti né vincitori fin dai primi solchi dell’opener “Skin of the Beast”, che, pur attraversata da una tensione tribalistica di chiara ascendenza neurosisiana, non punta affatto a esiti ritualistici o iniziatici, ma rimane più che saldamente confinata in una dimensione materialisticamente terrena. Non deve ingannare nemmeno l’avvio apparentemente metafisico della successiva “Gathered in Circles”, perché il brano vira in fretta verso orizzonti di impronta Crowbar carichi di angoscia e fatica, con il basso di Barry Murray e le pelli di Alan Setter fondamentali per innalzare strutture minacciose anche se non così solide come sembrerebbe a un primo, sommario sguardo. Si cambia parzialmente registro con la quasi sorprendentemente accattivante “Pillars”, che azzarda con successo finanche qualche concessione a una fruibilità relativamente immediata (qui il termine di un possibile paragone sono i Kylesa della premiata ditta Cope/Pleasants). Finora siamo al cospetto di una tracklist decisamente orientata all’ortodossia sludge, oltretutto declinata nelle sue diverse sensibilità, ma da questo momento in poi i Partholón decidono di riportare almeno parzialmente la bussola verso il post-metal, a cominciare dalle aperture atmosferiche di “Light Chamber”, che adombrano esiti cinematografici di scuola Cult of Luna, per sbarcare infine su lidi liturgico/cerimoniali con la conclusiva “We Swallow the Ocean”, monumentale suite corale in forma di canto dei marinai della nave affranti per la perdita dei loro compagni. Qui, tra spunti velati di malinconia e più di qualche concessione melodica all’interno di un perimetro dove comunque non mancano strappi allucinati e visioni inquietanti, si completa il rientro in acque post-, prima di un finale in dissolvenza che sembra dispensare una calma apparente o forse, meglio, la rassegnata accettazione dell’avvenuta tragedia.
Album anfibio e dalla doppia anima in perfetto equilibrio tra richiami storici e qualche punta di sperimentazione, The Ocean Pours In è un lavoro con tutte le carte in regola per soddisfare sia i nostalgici dello sludge d’autore che i devoti del post-metal, dimostrando che, in definitiva, le sorti di un genere musicale dipendono sempre dalla qualità delle mani che lo plasmano… e con i Partholón anche stavolta non ci sono dubbi, il risultato non ha tradito le attese.
(Moments Of Collapse Records, Ripcord Records, Fiadh Productions, 2024)
1. Skin of the Beast
2. Gathered in Circles
3. Pillars
4. Light Chamber
5. We Swallow the Ocean