Quella di Penelope Trappes, cantante, produttrice e polistrumentista australiana residente a Brighton, è una proposta “scomoda”, ma proprio per questo (per me) affascinante. A Requiem è il suo album più recente, con cui, attraverso l’approccio costantemente puntato verso un’avanguardia di stampo intimista, cerca di capire se esista davvero un limite che separa la vita dalla morte, e, quanto questo possa essere valicabile, in entrambe le direzioni. Il suo deve anche (e obbligatoriamente, per i motivi di cui parleremo più avanti) essere visto come un tentativo di esorcizzare il male che si porta (dietro e) dentro. Perché il male, lo dice lei stessa, è come la morte, inevitabile, onnipresente.
A Requiem, forte dell’idea che gli incubi possono anche essere bellissimi, isola, aliena e distacca, ma con grande eleganza, e attraverso scelte stilistiche costantemente spiazzanti, che si spostano in territori tra loro apparentemente incompatibili, ma che si rivelano invece tanto affini quanto coincidenti. Il tutto racchiuso in un album in cui risplendono sonorità dissonanti, e sconvolgenti, che necessitano di un’immersione pressoché totale ad un volume che possa garantire una profondità di suono totalizzante, ideale per un trasporto che sia definitivo. Il disco è stato infatti concepito come tentativo di venire a patti con la dipartita terrena dei suoi genitori. Tentativo che, però, non deve essere volto alla loro glorificazione, quanto più ad una loro collocazione per certi versi punitiva. Penelope Trappes in merito non fa mistero di ritenerli colpevoli di aver tenuto comportamenti poco edificanti, ed aver flirtato con il patriarcato e la violenza, anche ai suoi danni. A Requiem guarda ai soprusi subiti dalle donne, della sua famiglia e non, delle violenze, verbali e fisiche in un racconto che mescola sacro e profano, in cui il rumore che risalta di più è quello dei silenzi che riverberano nell’etere, ha un substrato fatto di intensità e bellezza, che non può non incutere una spossante sensazione di straniamento, volta a trascendere la normale percezione della realtà, che si sostanzia attraverso la sperimentazione di (sempre) nuovi linguaggi sonori. La sua è una ricerca sperimentale a metà tra l’ambient, il noise e il gothic, resa uniforme da un ibrido coinvolgente (e avvolgente) da cui non è per nulla facile affrancarsi.
Un ibrido in cui regna solenne un violoncello inquietante che si muove attraverso atmosfere funeree e agghiaccianti, in un immaginario in bianco e nero, ricco di contrasti e contrapposizioni, infondo a cui c’è una luce accecante, quella delle tenebre in cui veniamo trascinati con questo rituale di puro adorcismo.
(One Little Independent Records, 2025)
1. Bandorai
2. Platinum
3. Second Spring
4. Sleep
5. Anchor Us to Seabed Floor
6. Red Dove
7. Caro
8. A Requiem
9. Torc
10. Thou Art Mortal