“Scandinavia storicamente in pole position, area anglosassone a debita distanza, Italia che difende posizioni ormai da tempo consolidate, penisola iberica in forte ascesa, Francia specializzata in produzioni estreme/sperimentali” …se dovessimo chiedere ai devoti delle sonorità doom/death una rapida (e forzatamente sommaria) ricognizione geografica alla ricerca delle roccaforti europee di uno dei generi figli della lezione sabbathiana, sarebbe probabilmente questa la risposta più gettonata, con l’ovvia premessa che in tutto il continente non mancano cittadelle sparse non meno qualitativamente di rilievo. In pochi, immaginiamo, azzarderebbero citare e annoverare Malta tra i centri più vivaci della scena, eppure il piccolo arcipelago al centro del Mediterraneo può vantare un rapporto clamoroso tra passione per il metal e demografia, smentendo il grande classico che vorrebbe la predilezione per le sonorità oscure confinata rigorosamente oltre paralleli collocati molto più a nord. Culla sempre affollata di moniker autoctoni tutt’altro che trascurabili per caratura e spessore (citiamo qui per brevità solo l’ormai trentennale e impeccabile carriera dei candlemassiani Forsaken e un nome come i Weeping Silence, capaci in passato di calamitare in modalità guest uno dei pesi massimi del pianeta gothic/doom come Anders Jacobsson), Malta è stata oltretutto per anni sede di uno dei festival doom più significativi d’Europa, riunendo a cenacolo affermate eccellenze e band emergenti in arrivo dai quattro angoli del continente. Non è dunque per mero gusto “esotico” o per velleità enciclopedica che vale la pena occuparsi dei Pilgrimage, quartetto che approda formalmente al debutto sulle lunghe distanze di un full length ma con una line up caratterizzata da musicisti di navigata esperienza, con ben tre membri transitati in tempi diversi nel roster Weeping Silence e il quarto, Eric Hazebroek, planato dall’Olanda a offrire il suo contributo alle sei corde fresco di pubblicazione dell’ultima fatica di casa Vetrar Draugurinn.
L’orizzonte disegnato dai Nostri con questo Sigil of the Pilgrim Sun è un doom/death dai tratti tipicamente novantiani, con pesantezze e spigoli in evidenza rispetto a una componente melodica che, pur senza risultare del tutto estranea alla trama dei brani, ricopre un ruolo tutto sommato non di primissimo piano, a maggior ragione se paragonata alla centralità che i più recenti sviluppi del genere le stanno riservando, soprattutto in area scandinava. Volendo oltremodo semplificare, potremmo forse dire “meno abbandoni malinconici, più claustrofobia e sinistra visionarietà (la stessa magnificamente adombrata nell’artwork della cover, a firma di Daniel Neagoe)”, ma è bene sottolineare subito che lo sguardo della band è tutt’altro che anacronisticamente rivolto al passato, come ampiamente testimoniato anche dalla relazione con i modelli che, inevitabilmente, incontra e affronta solcando acque già abbondantemente sollevate da scie altrui. Ed è qui che il quartetto mette a segno il primo colpo, riuscendo a riecheggiare diversi giganti senza mai entrare nei panni banali dei cloni fuori tempo massimo, segno inequivocabile di una personalità fuori dal comune. Certo, volendo sezionare certosinamente le tracce, potremmo perdere ore a riconoscere e pesare gli apporti My Dying Bride, Paradise Lost, Swallow the Sun (degli esordi), Celestial Season, Clouds e via elencando, ma per ridurre ad unità una siffatta messe di ascendenze serve comunque una mano ferma in sede di scrittura e un’ispirazione che non faccia mai calare la tensione, qualità che i Pilgrimage dispensano in abbondanza. A rinforzare l’impressione complessiva di un lavoro confezionato con tutti i crismi del caso provvede la prova impeccabile degli artisti, a cominciare dalla sezione ritmica Sean Pollacco/Dino Mifsud Lepre, metronomi impeccabilmente impegnati a erigere monoliti granitici cadenzando l’andatura ma del pari sempre pronti a scatenare tempeste quando devono accompagnare i passaggi death più telluricamente orientati, passando per le chitarre del citato Hazebroek, gran maestro e cerimoniere di atmosfere e attentissimo gestore dei momenti di pausa del ritmo, in cui incastona con equilibrio gemme melodiche. Ulteriore freccia nell’arco del platter, il microfono è ottimamente presidiato da Dario Pace Taliana, perennemente sospeso tra uno scream sabbioso e un growl profondo che non di rado conferisce ai brani un taglio evocativo che finisce per pescare direttamente nel registro del solenne, senza trascurare una discreta predilezione per le parti narrative ad aggiungere ulteriori colori ad una tavolozza a cui non mancano mai caleidoscopiche sfumature. Sette tracce per poco più di cinquanta minuti di ascolto complessivo, Sigil of the Pilgrim Sun dispensa motivi di interesse praticamente ad ogni stazione del viaggio, forse con la sola parziale eccezione della più breve della compagnia, “She Who Wakes from Slumber”, penalizzata da un approccio per una volta troppo scolastico alla materia. Per il resto, non c’è davvero che l’imbarazzo della scelta, tra le onde limacciose progressivamente increspate dell’opener “The Pilgrim”, il tiro pachidermico classico (per cui azzardiamo nobili richiami Saint Vitus e non meno stimolanti echi Mourning Beloveth) su cui la sei corde stampa ricami allucinati della successiva “Voyage to the End of Time” o la coraggiosa “Dream Rivers Lachrymose”, con una tensione di fondo che osa scomodare senza scivolone alcuno le spire Type O Negative. Detto di una “Through the Well of Starlight” che centra alla perfezione il dosaggio aureo tra muscoli, velocità e un’ipnotica linea notturnamente poetica, in “Silent Descent into Solitude” viene calato il jolly Neagoe, ospite al microfono per l’episodio vocalmente meglio confezionato della compagnia, con la sua perfetta alternanza di parti recitate e rallentamenti in growl, prima di un trascinante finale che inietta vapori acidi nell’atmosfera. Siamo già qui nei pressi del vertice qualitativo dell’album, ma a conti fatti ci sentiamo di assegnare la palma di best of del lotto alla conclusiva “Nothing but Death”, autentico trionfo swallowiano sulle orme di una “Doomed to Walk the Earth”… ed è più che un’ottima notizia, per chi pensa che il doom/death sia la dimora per antonomasia dell’inquietudine che si fa arte.
Denso, oscuro, a tratti quasi liturgicamente imponente ma sempre sorretto da un intreccio di linee narrative in cui c’è spazio per trasparenze e improvvisi giochi di luce in chiaroscuro, frutto della collaborazione di musicisti che affondano solidissime radici nei canoni del genere senza mai affidarsi al solo bagaglio accumulato in anni di esperienza, Sigil of the Pilgrim Sun è un album che supera di slancio la prova debutto collocandosi in una fascia di gran pregio a non troppa distanza dall’eccellenza. Le premesse per un’ottima carriera ci sono tutte, ai Pilgrimage il compito (e l’augurio) di proseguire sulla rotta appena tracciata.
(Sleaszy Rider Records, 2021)
1. The Pilgrim
2. Voyage to the End of Time
3. Dream Rivers Lachrymose
4. Through the Well of Starlight
5. She Who Wakes from Slumber
6. Silent Descent into Solitude
7. Nothing but Death