Quantità, varietà e qualità… un ipotetico sommelier avrebbe davvero solo l’imbarazzo della scelta, nel dover consigliare come preferibile uno degli assaggi della doom vendemmia tricolore di questo autunno 2019, a tutti gli effetti una delle più generose che si ricordi a memoria di genere per contemporaneità di uscite caratterizzate dai tratti dell’imprescindibilità. Iniziata con i grappoli classici della tradizione sabbathiana maturati sui tralci Bretus del magnifico Aion Tetra e proseguita con pari resa qualitativa nelle nebbiose vigne Esogenesi capaci di regalare un nettare dallo spiccato retrogusto Mourning Beloveth per corposità e monumentalità (e non aggiungendo all’elenco per mera questione di release date antecedente l’equinozio l’ennesimo capolavoro di casa (EchO), Below the Cover of Clouds), la stagione prosegue con immutata e provvidenziale prodigalità grazie alla terza perla, in arrivo stavolta dalle terre dell’ultimo lembo occidentale della Liguria.
Ad aver disposto i filari in impeccabile misura e orientamento sono stavolta i Plateau Sigma, quartetto di Ventimiglia ormai alle soglie del decennio di una carriera iniziata subito sotto i migliori auspici grazie alla buona prova nell’EP White Wings of Nightmares e proseguita senza battute d’arresto o anche solo passaggi zoppicanti con la doppietta The True Shape of Eskatos/Rituals, che li hanno imposti come una delle realtà più promettenti in emersione dalle italiche latitudini e che già nel 2017 hanno garantito ai Nostri la convocazione per quel Doom Over Kiev che è ormai una sorta di battesimo per le band alla ricerca di una consacrazione internazionale. Accantonate le suggestioni classiche e i richiami al pantheon romano sfoderati nel predecessore, con questo Symbols – The Sleeping Harmony of the World Below i Plateau Sigma confermano comunque tutti i punti di forza che avevano già impreziosito Rituals, facendo contemporaneamente segnare un ulteriore passo avanti sul versante della maturità. Anche stavolta, infatti, ci troviamo al cospetto di un doom decisamente atipico, o, se vogliamo, “eretico”, rispetto agli standard del genere ed è la stessa band a dichiararlo chiaramente nei propri profili social, annunciando l’incontro tra riff monolitici e paesaggi onirici in arrivo dalla scuola darkwave. Ecco allora da un lato il solido ancoraggio alla tradizione doom (che culmina in alcuni passaggi swallowianamente a contatto con le cristallizzazioni funeral ma che mediamente è più opportuno collocare nel grande alveo My Dying Bride, o, meglio, nella scia di quel “nautik doom” utilizzato da molti per catalogare i lavori di casa Ahab) e dall’altro improvvise aperture in cui filtrano riflessi di quel gusto malinconico/crepuscolare/decadente che ha fatto la fortuna di chi negli anni Ottanta ha raccolto l’eredità oscura del movimento post-punk contaminandolo con le voluttuosità new wave. Questa doppia anima dell’album si riassume plasticamente nella scelta di affidarsi a una doppia linea vocale, con Francesco Genduso a presidiare con il suo growl ieratico-catacombale il comparto doom (qui per larghi tratti la lezione più proficuamente immediata è quella di un Thomas A.G. Jensen, dall’università Saturnus) e Manuel Vicari libero di ricamare traiettorie in clean ora melodicamente sognanti ora teatralmente recitate. Che Vicari avesse tutte le carte in regola per candidarsi al ruolo del Vincent Cavanagh cisalpino, peraltro, era già stato abbondantemente certificato dalla monumentale prova squadernata in Rituals, ma qui l’asticella si alza ulteriormente, regalandoci un vocalist con indubbie doti da “interprete” ma altrettanto in grado di tormentare le atmosfere e dare profondità di campo ai brani, senza dimenticare diverse occasioni in cui si sembrano affacciarsi addirittura prospettive avantgarde. Con simili premesse, non stupisce che, per eventuali viandanti occasionali che scelgano di buttare un orecchio distratto a una tracklist in più occasioni oggettivamente impegnativa, fruibilità e immediatezza non siano esattamente le doti principali del platter, ma il succedersi degli ascolti ripaga ampiamente le difficoltà del primo impatto, subito evidenti nell’opener “Heterocromia”, con i suoi brividi teatral/horror a tormentare una base doom cadenzata, finché un improvviso cambio di fondale non porta in scena un classico strappo death. Un alone di mistero cerimoniale (preannunciato del resto dal titolo, dove si richiama lo strumento usato nelle sedute spiritiche per entrare in comunicazione con le entità ultraterrene) avvolge invece buona parte della successiva “Ouija and the Qvantvm”, forse il brano relativamente più debole della compagnia, complice una seconda metà un po’ troppo anonimamente trascinata su sponde funeral, ma si riparte subito con la splendida “A Parody of Medea”, vertice dei rimandi non solo vocali agli Anathema di Eternity o Alternative 4, gestiti con quell’opportuno senso della misura che evita qualsiasi rischio di plagio o anche solo banale citazionismo. Che i Plateau Sigma siano in grado di solcare cieli impegnativi senza bruciarsi le ali, peraltro, è chiarito definitivamente dalla perla del lotto, “The Moon Made Flesh”, brano che, all’interno di un perimetro incantevolmente curiano alla Bloodflowers (con annesse lodi per Vicari in modalità Robert Smith e per un assolo che non sfigurerebbe affatto, nell’arsenale di Perry Bamonte) incastona una riuscita escursione in territorio prog death e dall’altrettanto pregevole “The White Virgin”, arricchita da vapori psichedelici che disegnano una delicata aura cosmic. Si rimane su livelli prossimi all’eccellenza anche aggirandosi tra le strutture imponenti ma dai contorni sfuocati dell’altro gioiellino oscuro della tracklist, “She Kept the Sacred Fire, Still” e supera abbondantemente la prova anche la conclusiva “The Child and the Presence”, dove rivivono le astrazioni ambient e i delicati arabeschi con cui la raffinata ed elegante “Amber Eyes” aveva fatto calare il sipario su The True Shape of Eskatos.
Coraggiosamente sperimentale senza perdere mai di vista le coordinate imperituramente fissate dai sommi maestri del genere, coinvolgente ed emozionante grazie a un impeccabile gioco di equilibri tra energia e abbandoni, Symbols – The Sleeping Harmony of the World Below è un album che si aggira in uno dei cieli a più stretto contatto con l’Empireo, in un’ipotetica raffigurazione dantesca del paradiso doom. La scalata dei Plateau Sigma verso la vetta è praticamente terminata, manca davvero pochissimo, alla perfezione.
(2019, Avantgarde Music)
1. Heterochromia
2. Ouija and the Qvantvm
3. A Parody of Medea
4. To Mnemosine’s Bittersweet Fruit
5. The Moon Made Flesh
6. The White Virgin
7. She Kept the Secret Fire, Still
8. The Child and the Presence