Ogni fan di post-metal che si rispetti dovrebbe già conoscere la band ravennate dei Postvorta e i suoi due precedenti lavori Beckoning Light We Will Set Ourselves on Fire ed Ægeria. Quest’ultimo, in particolare, è stato il primo capitolo di una trilogia sul ciclo della nascita di cui questo Carmentis, uscito per Third I Rex, è il secondo tassello. Postvorta, Ægeria e Carmentis, erano infatti tre delle quattro dee romane, le Camene, deputate al parto. Carmentis poi – da cui il carmen, no?, e quindi il canto e la poesia – era quella che più avvicinava le Camene alle muse greche, o quantomeno questo accadeva nell’Odusia di Livio Andronico. Ed ecco allora che Carmentis vuole essere un’epica della nascita, ricco di pathos e latore di tragedia, sotto il segno del post-metal. Ad incorniciare il core del lavoro, costituito da tre brani, ci sono l’intro “15” e l’outro “13”, un cameo di Tero Holopainen dei Callisto che chiude il lavoro in modo sornione, con un intelligente sorriso, sboccacciato e stonato, ma che allo stesso tempo sa di antico, di classicità.
Il primo pezzo che si incontra è “Colostro”, che, come il primo latte, si fa strada fluidamente in un avvincente crescendo, rinforzato da un vocione imponente e stupende riprese ricche di pathos, evitando lo sterile citazionismo fine a se stesso e sorprendendoci invece con un’inaspettata rimemorazione della lezione dei Tool, che sgretola temporaneamente il massiccio e fitto granito delle trame. La seguente “Cervix” è un tutt’uno con “Colostro”. Qui l’aggressività si svela sin da subito, la struttura è articolata tra andature sbilenche che brillano in grandi aperture, la consueta liquidità intrauterina, cavernosa, della musica dei Postvorta e una sezione ritmica compatta che va a creare veri e propri muri. È un profluvio interminabile di idee che tocca anche delicate, ma dalla tensione sempre latente, note post-rock. Infine, “Patau”, che vede il featuring di Mers Sumida dei Black Table e che richiama esplicitamente la sindrome di Patau, o trisomia 13 (il pezzo conclusivo, ricordiamo, si chiama proprio “13”), una malattia rara che provoca deformazioni, come anche il ciclopismo – ancora un evidente richiamo all’epica classica – e che determina un’incompatibilità del neonato con la vita. E allora ecco che nel finale la Sumida impersona la camena Carmentis, una divinità colta dallo strazio, una voce sconosciuta sia per la natura non-umana, ma anche una grande madre che canta l’intensità delle proprie emozioni, il dolore per il frutto nato dall’aver esperito l’irriducibilità dei due sessi nella cooperazione con l’altro da sé, nella fecondazione. “Patau”, ancor più che una preghiera, è una bestemmia, una sfida a viso aperto dell’uomo verso il divino, che rivendica il proprio portato antagonista nella rivendicazione della deformità del corpo, e del conseguente rifiuto della vita, intesa come perfezione, come residuo di umanità e come fiera lotta nel suo non-integrarsi alle logiche del mondo e della vita.
Certo, potrebbe scoraggiare il numero esiguo delle canzoni, solo tre, ma Carmentis, oltre a rifarsi pienamente con un minutaggio abbondante, è un album pensato per trascendere la monade della canzone e dotato di un impianto di scrittura che richiede di essere fruito come un continuum, forsanche come una pièce, che propone un’esperienza ricca di segni che sfuggirebbero ad un ascolto superficiale o a saltare, un disco attento ad ogni particolare.
(Thid I Rex, 2017)
1.15
2.Colostro
3.Cervix
4.Patau
5.13