Ci sono gruppi che sembrano essere costretti a dover dimostrare qualcosa ad ogni uscita, mossi da spirito critico e voglia di superare ogni volta i propri limiti, mentre altri si adagiano su una spirale discendente fatta di manierismo e falsità artistica. Tra i primi fortunatamente possiamo annoverare con certezza i Radiohead, veri camaleonti musicali della musica degli ultimi trenta anni, i quali non hanno bisogno di ulteriori presentazioni. Vergogna plurima a tutti coloro i quali non possiedono la loro discografia nelle proprie teche casalinghe!
A Moon Shaped Pool, ultima fatica dei cinque (o sei) inglesi, arriva cinque anni dopo il controverso The King of Limbs, il quale aveva stravolto ancora una volta le carte in tavola, mostrando il lato più sperimentalmente sincopato dei Radiohead, capaci di viaggiare con nonchalance tra poliritmie e altre diavolerie elettroniche di scuola UNKLE o Four Tet. The King of Limbs è però un esperimento solo parzialmente riuscito, in quanto colmo di composizioni che sono fredde e distaccate, spogliate del pathos emotivo ben presente ad esempio nel loro capolavoro massimo Kid A, nonostante anche qui regnasse l’asetticità e la digitalizzazione estrema.
A Moon Shaped Pool sembra voler riprendere questo contatto sentimentale con l’ascoltatore, mostrando quanto di buono i Radiohead hanno saputo fare fino ad oggi: creare una cura maniacale dei suoni che lascia a bocca aperta l’ascoltatore e che trascina in un vortice di emotività reale e mai di maniera. Occorre però ammettere che il risultato rischia di distaccare e essere schiavo dello stato d’animo del momento di chi ascolta, risultando troppo pacifico e soft in determinati punti. Il mood del disco è infatti molto pacato e troppo statico, rendendo quest’ultima fatica il lavoro più tranquillo e forse piatto dal punto di vista sonoro/melodico dei Radiohead, nonostante non vi sia davvero un pezzo trascurabile e sia altresì presente la consueta cura maniacale dei suoni. Non ci sono veri passi falsi, anche perché i Radiohead hanno ben dimostrato di non saper fare un disco brutto nemmeno impegnandosi. Ad esempio il già menzionato The King of Limbs è un disco per cui molti altri gruppi venderebbero la propria anima al diavolo pur di poter concepire e suonare una cosa del genere. Oppure basta considerare Hail To The Thief, il cui unico difetto è quello di essere troppo dilungato. Ma manca un po’ quella verve rock e varietà che ci aveva fatto adorare In Rainbows o Ok Computer, o quelle sferragliate di violenza sonora tipiche dei momenti più convulsi della loro discografia. È chiaro che conta moltissimo il fatto di essere i Radiohead, e portar dietro tutte le aspettative che questo nome implica.
A conti fatti A Moon Shaped Pool ci mostra sempre un gruppo in piena consapevolezza dei propri mezzi, ma anche cresciuto, adulto, disilluso. Quest’albo sembra volerci mostrare il lato dei Radiohead ormai consapevole del fatto che certe cose non possano più tornare. Ma nonostante tutto sembra esservi un’accettazione di tutto ciò, malinconica e lieve. Come nella stupenda “Daydreaming”, dai sapori SigurRossiani, una delle canzoni più belle scritte dai Radiohead. Un pezzo sussurrato, colmo di rumorismo minimale, in cui la voce in reverse di Thom Yorke viene plasmata dalle sapienti mani di Jonny Greenwood come se fosse un altro strumento a disposizione del combo. Psichedelia tonale che cresce, evolve e confluisce in uno dei finali più tristi e introspettivi mai scritti da Thom Yorke. In pratica la canzone che sancisce la fine di un amore, il capitolo conclusivo di metà della vita del cantante. Se il disco precedente sembra quasi un disco solista di Yorke, A Moon Shaped Pool sembra invece il disco dei fratelli Greenwood. Da un lato Colin sferraglia e incalza qua e là col suo basso sincopato e colmo di groove in ogni pezzo del disco: basti ascoltare la meravigliosa “Ful Stop”, il pezzo più scatenato del lotto, in cui il crescere dinamico della ritmica la fa da padrona, facendoci ballare e muovere a ritmo magneticamente. Ci sarebbero voluti più pezzi del genere in questo disco, col senno di poi. Dall’altra parte Jonny, il quale, con a disposizione un’intera orchestra, dirige e riempie gli arrangiamenti di ogni pezzo con archi dissonanti e ariosi. Basti pensare all’introduttiva “Burn the Witch”, vera gemma di armonie e arrangiamenti apocalittici da questo punto di vista.
Tutta la sapienza di Ed O’Brien viene fuori invece dagli arpeggi e dai feedback della bellissima “Decks Dark”, il pezzo con una delle melodie più convincenti del disco, e dalle trame di “Identikit”, colma di groove e linee al limite del soul. “Glass Eyes” invece commuove per la leggerezza e il piglio ambient delle melodie, eteree e fluttuanti, in cui ancora viene fuori la descrizione di attimi fugaci, irripetibili, da guardare sempre con pacifica malinconia. Sulla stessa falsa riga si muovono “The Numbers” e “Desert Island Disk”, rette in pieno dalla chitarra acustica di Yorke, veri esempi di psichedelia presa a piene mani da Neil Young. Tornano invece le maracas, tanto apprezzate in passato (“Paranoid Android”, anyone?), nella atipica “Present Tense”, quasi latina nel suo incedere e anche figlia delle sperimentazioni indiane-orientali di Jonny Greenwood degli ultimi tempi. “Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief” invece sembra uscita direttamente dalle atmosfere liquide di Amnesiac, in cui ancora una volta gli arrangiamenti orchestrali di Greenwood fanno la differenza dando un sapore pop-soul melodico à la PJ Harvey o Joni Mitchell. Chiude il lotto la meravigliosa “True Love Waits”, rimasta chiusa nel cassetto per anni in quanto il gruppo non era mai soddisfatto del risultato prodotto. Qui Thom Yorke dona il meglio di sé, straziato, vulnerabile e trasportato dalle note di un pianoforte delicatissimo la cui ritmica è leggermente trascinata. L’esempio chiarissimo di come le canzoni più semplici siano molto spesso quelle più toccanti e memorabili. La chiusura della canzone, e quindi del disco, riassume in pieno l’essenza di A Moon Shaped Pool: “Just don’t live, don’t leave…” con nota lasciata vibrare in fade out verso un mare di silenzio contemplativo e delicatissimo.
Come già detto in precedenza, si ha l’impressione di aver di fronte un gruppo ormai pacificamente consapevole di quel che può fare: comporre bellissime canzoni che rappresentano il segno del tempo che avanza e non aver mai paura di percorrere nuove strade. Un gruppo che sa sempre cosa suonare e come farlo, senza aver paura di seguire i propri istinti artistici, andando anche contro le regole del marketing musicale. Riassumendo, il prodotto è di qualità eccelsa, nonostante la staticità di fondo che potrebbe stufare chi non è abituato a certi umori. Volendogli trovare un posto nella discografia degli inglesi, potremmo dire che A Moon Shaped Pool è sicuramente inferiore a In Rainbows, di cui la varietà melodico/ritmica è ineguagliabile, senza dubbio superiore a The King of Limbs e di simile valore rispetto a Hail to the Thief. Tralasciando i capolavori irraggiungibili, ovviamente. Per questo promuoviamo il disco come uno degli apici di questo 2016, e ne testeremo la longevità tra qualche anno, consci del fatto che cresceremo e evolveremo anche noi, con i nostri artisti preferiti a farci da colonna sonora finché morte non ci separi.
( XL Recordings, 2016)
01. Burn the Witch
02. Daydreaming
03. Decks Dark
04. Desert Island Disk
05. Ful Stop
06. Glass Eyes
07. Identikit
08. The Numbers
09. Present Tense
10. Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief
11. True Love Waits