13 anni, ovvero 52 stagioni, o 156 mesi, o 4.745 giorni… immaginiamo di interrogare una platea di incalliti musicofili su cosa possa rendere plasticamente e immediatamente l’idea del lasso di tempo trascorso dal 2006 al 2019 e, terminato il conteggio puramente matematico, possiamo scommettere che non ci vorrà molto per sentirsi dire “ah, certo, sono le date di rilascio degli ultimi due album dei Tool!”. Immaginiamo ora di porre lo stesso quesito a qualche abitante della nicchia black e, con pari prontezza, ci sentiremmo probabilmente rispondere “beh, c’è qualcuno dei nostri che nel frattempo ne ha composti nove, di platter… e raramente ha sparato colpi a vuoto”.
Il monicker in questione è quello dei Raventale e davvero la carriera di Astaroth Merc, mastermind e unico componente del combo ucraino, meriterebbe uno spazio al sole ben più significativo di quello che è riuscito a ritagliarsi in anni caratterizzati da un’autentica furia creativa che ha non di rado varcato la soglia della torrenzialità, se consideriamo anche le release degli innumerevoli progetti paralleli che lo vedono protagonista, dai Balfor ai Chapter V:F10. Se poi al dato puramente numerico sommiamo il fatto che, nel panorama tutt’altro che sguarnito del genere, il buon Astaroth ha sempre solcato le rotte atmospheric black con un carico di personalità e ispirazione con pochi eguali, ci rendiamo subito conto di come a volte la qualità da sola evidentemente non basti, per finire sotto la luce dei riflettori. Fin dalla coppia di platter d’esordio (in lingua e grafia madre, con citazione d’obbligo per lo splendido sophomore Long Passed Days), infatti, i Raventale hanno puntato su un eccellente bilanciamento tra classiche abrasioni black, inabissamenti doom, arpeggi intrisi di abbandoni melodici e momenti di vera e propria astrazione ambient, creando un marchio di fabbrica capace di sfidare lo scorrere del tempo e delle uscite almeno fino all’ottimo Dark Substance of Dharma. A gettare qualche ombra ecco però, nel 2017, un lavoro come Planetarium che, pur senza configurare un passaggio del tutto a vuoto, ha presentato più di qualche segno di stanchezza e ripiegamento all’interno di un perimetro magari rassicurante ma del pari meno fertile in termini di coraggio e sperimentazione, quasi a segnalare l’avvenuto esaurimento di una vena fino a quel momento ricchissima e suggerendo dunque l’opportunità di un cambio almeno parziale di prospettive.
A provare a dare una risposta ai dubbi emersi due anni fa si appresta ora questo Morphine Dead Gardens e, lo diciamo in premessa, il risultato rischierà forse di lasciare molti dei vecchi fan in modalità sorpresa & sconcerto. La scelta stilistica del nuovo album, infatti, porta dritti non solo al doom, ma alla sua declinazione più oscura e compatta, vale a dire quella a stretto contatto con i confini funeral, là, dove la cristallizzazione del ritmo è più distante dalla lezione di quel black che, per quanto mediato dalle suggestioni atmosferiche, aveva comunque marchiato indelebilmente i lavori precedenti a colpi di strappi e impatto. In realtà, a uno sguardo più attento, la rivoluzione è molto meno copernicana di quanto possa apparire a un primo e sommario ascolto, sia perché un gusto malinconico/crepuscolare ha sempre accompagnato il percorso artistico del musicista ucraino, sia perché il funeral sfoderato nell’ora di ascolto è discretamente lontano dagli esiti più impenetrabilmente oscuri e opprimenti di marca Mournful Congregation così come dalla spettralità minimalista e teatrale targata Skepticism, collocandosi piuttosto in un filone di (relativa) potabilità dove gli echi doom sono ancora predominanti (pensiamo ai Doom:VS o al terzo atto di Songs from the North, in casa Swallow the Sun, oppure puntiamo sugli ultimi Shape of Despair, ovviamente al netto degli eterei gorgheggi di lady Koskinen). Attenzione però, sull’altro piatto della bilancia, a non sovrastimare la fruibilità complessiva dell’ora di viaggio, per affrontare la quale serve comunque una buona dose di dimestichezza con atmosfere segnate dalla ripetitività dei temi portanti e da strutture conseguentemente poco articolate ed è proprio qui, nella relativa uniformità delle cinque tracce proposte, che si concretizzano i limiti della nuova rotta intrapresa dai Raventale. Beninteso, nessuno su queste frequenze si attende frenetici cambi di scena o anche solo linee narrative in evoluzione, ma la contropartita deve essere un’immersione costante in un flusso emozionale che sappia tenere l’ascoltatore sospeso tra disperazione e struggenti abbandoni, trasportandolo in una dimensione parallela, incorporea e quanto più possibile straniante e, in questo, non sempre Astaroth centra l’obiettivo, finendo per dare l’impressione di una prolissità che rischia di intaccare incanti e trasporti, peraltro in diversi passaggi mirabilmente costruiti. Con simili premesse, luci e ombre finiscono per alternarsi per tutta la tracklist senza mai segnare davvero in modo indelebile in un modo o nell’altro i singoli episodi per determinarne ascesi irresistibili o rovinosi tracolli, ma dovendo scegliere dove puntare le fiches delle nostre note di merito, scegliamo senz’altro la seconda metà della conclusiva “Morphine Gardens” e, soprattutto, la prima parte e il finale di “Lorn and Deserted”: qui davvero la poesia dolente che rende grande e unico il genere sgorga spontanea e trova il giusto equilibrio, liberando il viaggiatore dalla percezione del tempo che passa insieme al volgere dei solchi.
Il coraggio di un cambio di rotta e la sfida di un nuovo linguaggio ma anche la consapevolezza di poter contare su forze artistiche fuori dal comune, Morphine Dead Gardens è un album che, senza far gridare al miracolo, supera comunque abbondantemente le insidie di quello che, a tutti gli effetti, possiamo considerare un secondo debutto. Il vascello Raventale ha appena preso il largo da un nuovo porto, conoscendo il timoniere non abbiamo dubbi che saprà stupirci anche in queste acque.
(Ashen Dominion, 2019)
1. As An Empty Shell
2. Lorn and Deserted
3. This Forsaken Place
4. In the Bitter Pain
5. Morphine Gardens