È la tarda mattinata di un caldissimo lunedì di metà aprile. Il termometro segna 25 gradi e lungo il tragitto che porta all’aeroporto si soffoca quasi quanto in estate. Si decide di partire in tutta calma per arrivare più riposati e psicologicamente preparati. Secondo il meteo la settimana non promette niente di buono ma bisogna sempre considerare che il tempo in Olanda è imprevedibile, forse peggio che a Londra. Si arriva all’aeroporto di Eindhoven ed il sottoscritto era già premunito di cappello, felpa e giacca pesante. Scendendo dall’aereo si viene travolti da forte vento, pioggia ed un freddo aggressivo ma fortunatamente era tutto calcolato. Si prosegue verso la fermata del bus per raggiungere la stazione centrale e da lì il treno per Tilburg. Il tempo peggiora sempre di più con pioggia incessante e raffiche di vento. Raggiunta la stazione di Tilburg il gelo aumenta quindi si raggiunge di fretta l’autobus verso la zona sud per raggiungere finalmente l’alloggio. Tilburg è una cittadina abbastanza grande ma è comunque vivibile e tranquilla che merita, senza dubbio, una visita approfondita. Avendola già vista si approfitta del tempo a disposizione per visitare la vicina Breda senza che la pioggia decida di dare tregua alcuna. Dopo tanti anni di presenza fissa al festival ci si sente un po’ come a casa e nonostante i cambiamenti ed un continuo mutamento di pubblico (le facce note che un tempo popolavano il festival sono via via scomparse) l’atmosfera accogliente rimane una costante. Anche quest’anno i palchi e le varie aree del festival sono rimaste le medesime, con però un ampliamento pauroso di iniziative e concerti in vari punti vicini di al festival fra locali aderenti (ad esempio Cul de Sac e Little Devil), incontri, interviste, dj set e finalmente il ritorno in pompa magna dello Skate Park Stage che ha visto alternarsi molte realtà fra novità e nomi più altisonanti a cui purtroppo non si è riusciti a presenziare data l’enorme mole di cose da vedere.
17/04/2024 – THE SPARK
Mercoledì sera c’è il party gratuito di inizio presso il piccolo palco Next Stage all’interno dello 013, il palazzone che ospita gli eventi più grossi (il Main Stage). Si inizia quindi con la prima band in cartellone ossia i metallari canadesi Riot City che infiammano i presenti con un heavy/power metal di scuola Riot/Exciter/Judas Priest/Iron Maiden solo per citarne alcuni. Non sono pochi i sostenitori fra il pubblico, ma c’è da dire che l’inizio non è dei migliori con suoni incomprensibili che sono poi migliorati nel corso dello show. L’energia e il coinvolgimento compensano la mancanza di originalità, ma in generale si percepisce tanta ripetitività ed un abuso di pose ed atteggiamenti che stanno invecchiando male ed un uso dello screaming metal che finisce con l’essere fastidioso per il suo uso infinito. Eppure il primo album (Burn the Night) nella sua dolce ignoranza non era affatto male, ma già con il successivo Electric Elite si finì con l’esagerare ed il concerto ne è stato il chiaro riflesso.
Segue il trio americano Sonja che vede fra le proprie fila la cantante/chitarrista Melissa Moore che in passato faceva parte degli Absu sotto il nome di Vis Crom, all’epoca cacciata per aver ammesso il suo essere transgender. Melissa si è rimboccata le maniche e ha messo in piedi questa nuova band autrice di un sound che richiama un certo gothic/glam rock ma in una veste molto heavy ed atipica. La vocalist si presenta vestita di bianco, sexy ed avvenente ma quando comincia a sparare i suoi riff chitarristici l’atmosfera si fa elettrizzante. I suoni sono limpidi e furenti e permettono alla band di proporre il suo sound semplice e melodico (eppure così particolare) nel migliore dei modi. Il cantato è grigio, quasi gelido eppure funziona ben supportato da solide ritmiche in un connubio che mescola sia il vecchio che il moderno tributando anche sia Danzig che gli Iron Maiden in un paio di cover. La sorpresa della serata.
In attesa dell’ultima band scambio due parole con i Sonja andando a curiosare il banco merchandise. Infine salgono sul palco i Final Gasp da Boston, probabilmente il gruppo su cui erano poste le aspettative più alte. Aspettative non soddisfatte, in quanto il loro mix di hardcore, proto heavy metal, doom e gothic appare troppo disordinato, senza un giusto filo conduttore. Si cerca, in qualche modo, di ricalcare le orme di acts come i Tribulation ma senza riuscire a raggiungere quella cupezza drammatica che servirebbe, ma il problema più grande è il non avere una chiara impronta personale finendo per copiare altri colleghi più noti. Lo stesso cantato, per quanto interessante, non ha identità o una forza tale da riuscire a rimanere impresso. Ci vorrà tempo per capire se la band avrà le carte per creare un suo stile. Si conclude quindi la serata inaugurale del Roadburn Festival. Molta gente deve ancora arrivare ma si parte comunque bene ed il pubblico è già felice ed entusiasta di farne parte.
18/04/2024
Il 18 aprile inizia il festival vero e proprio che, quest’anno in particolare, sarà funestato da un meteo agghiacciante con continui cambi di tempo che metteranno a dura prova i presenti, specie negli spostamenti fra i palchi ed il ristoro nelle aree food. Come ogni edizione è praticamente impossibile vedere tutto ed anche riuscire a vedere dei concerti interi è un’impresa altrettanto ardua, quindi la presenza ai concerti sarà purtroppo limitata per cercare di raccontare il più possibile l’esperienza al Roadburn.
Il battesimo del fuoco avviene al Terminal Stage con gli Hexvessel, combo finlandese già ospite del festival ma che quest’anno sarà protagonista di una presenza più massiccia. Oramai rodato da diverso tempo con una formazione a quattro, il gruppo si presenta ai numerosi spettatori fra fumo e luci basse con il loro rituale atmosferico/pagano sempre più improntato su un folk/black metal dalle tinte doom piuttosto che ad un certo rock psichedelico dei dischi precedenti, che era forse il loro punto di forza. La band è solida e concentrata e la musica esce tetra ed epica dagli amplificatori, anche se manca quella vena sperimentale degli inizi. La band di Helsinki sta decisamente evolvendo in qualcosa di un po’ troppo prevedibile e scontato ma riesce comunque ad appassionare fra accelerate black metal ed incursioni nei bui tempi antichi.
Ci si sposta al Next Stage per scoprire i The Infinity Ring da Boston. Promettenti sulla carta (il loro album Nemesis & Nativity ha diversi spunti di interesse) ma dal vivo vengono fuori evidenti limiti non tanto dal livello tecnico ma su quello compositivo. Tranne qualche momento lo show si presenta statico, con un susseguirsi di suoni e brani troppo simili l’uno all’altro. Le melodie, gli arrangiamenti strumentali ed il cantato dolente faticano a trovare una loro via rimanendo in un loop infinito, anzi, in un “Anello Infinito”. Ci sono dei richiami ad una certa epicità apocalittica tipica degli Swans ma alla resa dei conti si sente una band ancora grezza e che necessita di crescere molto.
In contemporanea però c’è un evento che merita considerazione. I truci Wiegedood dal Belgio, altra vecchia conoscenza del festival. Stavolta però offriranno qualcosa di differente presentando nel Main Stage la sonorizzazione del film horror giapponese, datato 1926, A Page Of Madness commissionato dal centro d’arte VierNulVier e dal Film festival Ghent. Il film in bianco e nero è stato diretto dal regista Teinosuke Kinugasa (1896-1982) ed è andato perduto per molti decenni. La storia segue le vicende ambientate in un istituto psichiatrico dove realtà e fantasia finiscono per fondersi (richiama qualcosa da Il gabinetto del dottor Caligari ed è stato sicuramente di spunto a molti registi più attuali come ad esempio John Carpenter). Il trio ha quindi un difficile compito e sebbene in alcuni momenti la musica fatichi a trovare la giusta collocazione fra le immagini si sente qualcosa di diverso dal solito. Il black metal della band si evolve in un turbine di psichedelia, jazz e tanta sperimentazione offrendo al pubblico un qualcosa di unico che si speri trovi posto in una release fisica.
Si ritorna nel Next Stage per rivedere il progetto di Mirza Ramic chiamato Arms and Sleepers, stavolta, a sorpresa, con una band con tanto di vocalist di cui purtroppo non si è venuti a conoscenza del nome. In veste solista il buon Mirza appare abbastanza monocorde. Gli arrangiamenti elettronici mescolati con il trip-hop e l’ambient alle volte faticano ad ingranare ma stavolta si sente un netto miglioramento. La musica appare rinvigorita, dinamica e sfaccettata e permette di godere di numerosi dettagli. È un gran peccato che non sempre i suoi concerti prevedano una band. Stavolta il progetto fa centro ed incanta i presenti.
Si riesce a dedicare un po’ di tempo agli Scaler, da Bristol, nel Main Stage. La band mescola massicce sezioni di elettronica con una componente sperimentale sfruttando chitarre elettriche e batteria. Anziché puntare a dei muri di suono come ad esempio i Vessels, il combo inglese punta più ad un set ai limiti del danceable e non è raro vedere gente che balla per tutta la durata del concerto. Musicalmente non ci sono particolari invenzioni e la componente più classic rock funge più da contorno per lasciare l’elettronica libera di esprimersi. Nulla di sorprendente, piacevole ma nulla di più.
Si necessita di un po’ di relax e non c’è nulla di meglio che dirigersi all’Hall Of Fame Stage per deliziare i timpani con un po’ di folk nord europeo. Direttamente dall’Irlanda sale sul palco Brigid Mae Power. Il suo stile ricalca il dream–pop intrecciandolo con il folk tipico della sua terra ma senza che nessuna componente prevalga sull’altra. Dotata di molta autoironia, la cantante si presenta davanti al pubblico quasi in punta di piedi ed anche durante i suoi brani non manca di far sorridere. Il suo approccio sonoro si mantiene sempre su di una sorta di basso profilo. Le melodie non sono mai sopra le righe ma sono costruite in maniera tale da fare da base alle parole creando un mood romantico ma allo stesso tempo malinconico. Un’esibizione particolare ma d’effetto.
Senza che ci si accorga dello scorrere del tempo è già sera ed è tempo delle ultime esibizioni. Si inizia con gli ucraini White Ward che dopo mille peripezie riescono finalmente ad esibirsi al Roadburn. Purtroppo manca il sassofonista Dima Dudko, rimasto in patria a combattere, ma la band non si lascia certo pregare e spara sui presenti un concerto decisamente rabbioso ed incazzato. Il black metal della band è furente ed affamato e durante la serata veniva quasi da pensare di trovarsi davanti a qualcun altro data la violenza che veniva riversata sul pubblico, specie nelle parti vocali. La componente jazz c’era ma veniva quasi nascosta privilegiando un assalto sonoro che il pubblico ha comunque gradito in maniera totale.
Ed eccoci all’ultima esibizione (almeno per chi scrive) della giornata, ovvero Chelsea Wolfe, che ritorna al festival dopo diversi anni. Forte dell’ultimo album She Reaches Out To She Reaches Out To She (che viene eseguito quasi interamente), la musicista di Sacramento si presenta al pubblico con la medesima line-up degli ultimi anni. Inutile dilungarsi. Grazie a suoni splendidi, nonostante degli intoppi sul finale, la performance è ammaliante ed offre tutte le sfumature a cui ci ha abituato Chelsea, dall’elettronica, al rock sperimentale, al folk, alle atmosfere plumbee ed opprimenti. Altro concerto magnifico e degno finale della giornata. A causa del tempo terribile che aspetta fuori mi vedo costretto a prendere il taxi per rientrare e riposare in attesa della seconda giornata.
19/04/2024
La giornata comincia all’insegna nuovamente del brutto tempo ma non ci si demoralizza. Il primo evento di interesse inizia abbastanza presto quindi ci si concede una colazione abbondante (pranzo e cena a volte saltano causa i mille impegni durante il festival), autobus verso la stazione centrale e poi a piedi per dare un’occhiata veloce al merch (va ricordato che va tenuto spesso d’occhio in quanto gli articoli possono finire presto oppure vengono messi prodotti nuovi in ogni momento). Prima meta è il V39, l’edificio di fronte allo 013 che è adibito per le interviste/discussioni ed incontri in generale. L’occasione è ghiotta per ascoltare l’intervista ai Khanate presenti al completo per discutere della loro carriera e del loro concetto di musica con uno Stephen O’Malley decisamente e “stranamente” loquace e sorridente come pure i suoi colleghi di band.
Il tempo passa veloce e subito dopo bisogna dirigersi immediatamente al vicino Next Stage per uno dei due show programmati dei Fluisteraars, particolare duo post–black metal olandese. Il concerto della giornata è però totalmente differente da quello che ci si potrebbe aspettare. È prevista l’esecuzione dell’album di recente uscita Manifestaties van de Ontworteling che sviluppa il sound della band in qualcosa di totalmente estraneo ed atmosferico, quasi ambient, una colonna sonora vintage con tanto di strumentazione ad hoc. L’affluenza è notevole ma onestamente i risultati non sono propriamente esaltanti. A volte confrontarsi con generi differenti non porta ad ottenere consensi garantiti. Lo show procede molto stancamente in maniera lenta e confusa ed a quanto pare l’allontanarsi dal proprio stile ha fatto più male che bene. Le atmosfere soffuse, le chitarre liquide, il mood ultra rilassato: tutte componenti che vanno maneggiate con cura e stavolta hanno ottenuto l’effetto opposto sfortunatamente.
Nel medesimo palco è la volta di Mia Prce, alias Miaux, una di quelle musiciste verso cui c’erano aspettative abbastanza alte. L’elegante Mia si presenta sul palco cercando di creare un’atmosfera immersiva ed eterea citando ovviamente il leggendario Vangelis. I risultati non sono stati soddisfacenti. Il sound, per quanto visionario ed ipnotico, non riusciva a far immergere del tutto gli ascoltatori in quel mood che vorrebbe. Il live si presenta troppo statico con pochissime impennate mantenendosi sempre su quella linea sonora facendo calare l’interesse dopo poco tempo. Occasione decisamente sprecata.
Si decide quindi di spostarsi al Main Stage per il primo set dei Blood Incantation, ovvero l’esecuzione integrale del bistrattato album Timewave Zero, EP che suscitò forti reazioni di perplessità per il fatto di distaccarsi in maniera quasi totale dal death metal per abbracciare sonorità più legate all’ambient e all’elettronica. Immersi in una spessa coltre di fumo e di profumo di incenso, i quattro musicisti si presentano sul palco praticamente e forse ironicamente in “pigiama” o qualcosa di simile ma indecifrabile. Scherzi a parte il concerto è qualcosa di particolare, immersivo, allucinato, basato su synth e tastiere che immergono gli ascoltatori nel loro mondo ultraterreno. Per chi c’era è stata una sensazione strana eppure gratificante che ha richiamato il prog/space rock psichedelico degli anni Sessanta – Settanta.
È tempo di dirigersi all’Hall of Fame Stage per il concerto di una delle rivelazioni del festival, ossia Lucy Kruger & The Lost Boys. Lucy è nata in Africa ma ora è residente a Berlino. Accompagnata da una nutrita e molto valida band, la musicista offre un variopinto set dove vengono mescolati moltissimi generi, dal post-punk al soul, dall’indie rock al blues, folk, rock’n’roll e via discorrendo. Lucy incanta con delle vocals pregne di sensualità e grinta e la band non manca di supportarla in un concerto potentissimo, dinamico e senza che ci sia un solo briciolo di confusione data l’estrema eterogeneità nei brani. La magia del Roadburn è quella di far scoprire tante piccole novità e c’è la certezza che nelle seguenti giornate ci saranno altre sorprese come questa.
Si riesce a tornare al Main Stage per vedere una parte dello show dei Dool che in questa occasione decidono di suonare per intero il nuovo album The Shape Of Fluidity. Lo show è compatto, energico e mette in mostra tutte le buone qualità della band olandese. Ci sarebbe da discutere sull’effettiva bontà del nuovo ed idolatrato lavoro del combo europeo, che mostra un valore aggiunto in sede live ma che non ha quell’oscura efficacia e magia che aveva l’esordio Here Now, There Then. I suoni sono moderni, stratificati e la vocalist Ryanne van Dorst è sempre più il fulcro con il suo cantato drammatico ed ammaliante. Il loro rock/metal dalle forti tinte oscure riceve ampi consensi fra il pubblico ma per il sottoscritto non è il concerto della vita.
Ci si sposta poi nel vicino Next Stage per l’arrivo degli Xiu Xiu. Non essendo mai riuscito a vederli in “coppia” (mancava però il batterista), l’occasione era ghiotta e l’accoppiata formata dal leader Jamie Stewart e da Angela Seo presenta uno show che praticamente asfalta i Dool. La setlist pesca da diversi album e tira fuori tutta la carica e la follia del duo. Jamie, alla chitarra ed oggetti vari, è l’anima irrequieta (quella più legata al noise ed elettronica) fra vocals acidissime e riff di chitarra pesantissimi, mentre Angela si dedica più alla componente melodica donando quel gusto sognante, quell’aura new wave/folk. La performance è più un’esperienza che un concerto vero e proprio fatto di rumori, atmosfere visionarie, pazzia e giochi strumentali. Applausi!
La curiosità era tanta per gli Health, divenuti trio da parecchi anni dopo l’abbandono dello storico Jupiter Keyes, eppure la compagine di Los Angeles innalza un muro di suono tale da far sbiancare chiunque. Sebbene negli anni ci siano state collaborazioni con molti musicisti (dai Full of Hell, ai Godflesh o anche Poppy), in sede live i tre grazie ad una sapiente combinazione di luci e suoni tirano letteralmente giù i muri. Il mix di noise rock, industrial metal ed elettronica non fa prigionieri ed oltre a tributare l’ultimo Rat Wars offre perle anche da altri album in un lungo set che vede anche la cover dei Deftones “Be Quiet and Drive (Far Away).” Spettacolari!
Durante la breve pausa si decide di assistere ad un pezzo di show dei clipping. presso il The Terminal Stage. Il loro hip-hop potrebbe richiamare i Dälek ma il trio propone invece un sound più diretto, oscuro ed apocalittico. I beat fumano di tensione ed aggressività. Purtroppo la stanchezza della giornata si è fatta sentire e non si riesce a godere appieno del set che comunque lascia una buona impressione con la necessità di un’ulteriore visione.
Oramai allo stremo (complici anche i pensieri per l’impegnativa giornata seguente) barcollo fino al Main Stage per gli americani Royal Thunder. Trovato spazio sulle gradinate ci si sdraia letteralmente per un po’ di meritato riposo. Ci si aspettava un super concerto dal trio (in quest’occasione si avvale dell’aiuto di un tastierista) d’oltreoceano, ma dei pessimi suoni hanno minato l’esibizione. Il fiammeggiante hard rock mescolato con il grunge e la psichedelia settantiana esce impastato e fiacco dalle casse, non facendo capire praticamente nulla lasciando l’amaro in bocca. La riproposizione dal vivo dell’ultimo album Rebuilding The Mountain viene funestata da troppi problemi. Gran delusione. Si spera in un futuro tour europeo per recuperare la disfatta.
20/04/2024
La giornata inizia abbastanza presto per svariati motivi. Ci si dirige di buon mattino in centro per fare un’abbondante colazione ed assaporare un po’ di atmosfera locale. C’è il Record Store Day e quindi si fila diritto al negozio di dischi Sounds Tilburg dove per l’occasione si esibiranno diversi gruppi, ci sarà dj set continuo ed il negozio sarà aperto per l’intera giornata. Il tempo è tiranno e permette di vedere solo un paio di gruppi.
A mezzogiorno iniziano i Chica Chica, band olandese fautrice di un mix strumentale di funky, musica popolare colombiana, psichedelia ed in generale un’attitudine molto rilassata. L’impatto è piacevole, il groove di basso ha l’attitudine giusta e le melodie aiutano a creare la giusta atmosfera fra il numeroso pubblico presente nel negozio che rovista fra gli innumerevoli dischi in vendita. Segue poi un’altra realtà locale che ha da poco pubblicato l’album di esordio Birthday Party. Il combo olandese si chiama FIEP e rispetto alla band precedente vira su di pop molto improntato sulle chitarre e su di un cantato leggero ben supportato dai cori. Non mancano alcune spruzzate di sperimentazione ed anche qualche impennata più rumorosa specie nei riff ed in alcuni passaggi di tastiera. A quanto pare erano parecchio conosciuti dato il caloroso supporto del pubblico e si confermano una piacevolissima scoperta.
Dopo un po’ di shopping e chiacchierate con i gruppi bisogna dirigersi di fretta al Rode Salon (presso il Theater De Nieuwe Vorst) per la presentazione in anteprima del nuovo lavoro della musicista Kati Rán uscito il 24 maggio a nome SÁLA. L’evento è organizzato dall’etichetta discografica finlandese Svart Records e prevedeva l’ascolto di alcuni brani inframmezzati dall’intervista alla musicista olandese. Causa impegni al festival non c’è stata occasione di assistere all’intero evento dato che durava circa due ore, ma è stato sufficiente per deliziare l’udito in quanto i brani ascoltati sono di una qualità molto alta e faranno felicissimi i fan di Heilung, Wardruna e Lili Refrain (ci sarà comunque la recensione quindi rimanete sintonizzati su queste pagine). Non è possibile rivelare particolari dettagli ma si sappia che ci sarà una nutrita schiera di special guest nell’album che è già in pre-ordine nel sito ufficiale dell’etichetta.
Un ringraziamento speciale alla Svart Records per l’invito e per la professionalità dimostrata, oltre che un saluto allo staff presente ovvero Jukka Taskinen della stessa etichetta, Jessica Otten (Hold Tight Europe) ed ovviamente Kati Rán.
Si corre poi velocemente al festival presso il Next Stage per vedere all’opera Annelies Monseré. La musicista belga normalmente compone e registra tutto in autonomia, ma in sede live ed in questa particolare occasione è accompagnata da alcuni musicisti che aiutano a creare il giusto mood. Il loro approccio al folk è totalmente differente dalle altre band del festival (tranne per coloro che calcheranno il Main Stage in seguito). Annelies predilige atmosfere ipnotiche e drone sfruttando delle melodie e suoni molto minimalisti. Il mood che si crea è impalpabile, etero, soffuso e riesce sorprendentemente a rapire il pubblico senza mai cercare la melodia facile ma costruendo brani stratificati pregni di colori pagani.
Di corsa nuovamente presso l’N39 per vedere l’ultima parte di intervista ai Blood Incantation. La stanza è bella gremita, segno che la stima per questa band è notevole e ne sono riprova i due show durante il festival colmi di fan adoranti.
Ci si sposta poi all’Hall Of Fame Stage per i doomster TAKH che vedono alla batteria Annelies Van Dinter già all’opera con i Pruillip, presenti anche loro al festival. Per quanto lo show sia buono non c’è nulla di particolarmente sorprendente. Il loro doom/post-metal, per quanto dalle tinte potenti e dalla giusta dose di melodia, non impressiona e non offre particolari spunti di interesse salvo a chi segue unicamente questo genere.
È la volta poi del Main Stage (da cui non ci si muoverà più o quasi) per assistere all’esibizione della nuova creatura dell’ex-SubRosa, Rebecca Vernon, con il progetto The Keening. Accompagnata da una corposa band (di cui fa un’ottima impressione la violinista/cantante Andrea Morgan), la musicista presenta il debutto Little Bird nella sua interezza. I rimandi ai SubRosa chiaramente ci sono, come quel senso di cupezza asfissiante o un certo romanticismo velenoso, eppure la nostra trova una sua via per reinterpretare il doom mescolandolo con sfumature folk dando vita ad uno show molto interessante che riesce a tenere in pugno gli ascoltatori combinando diverse venature. I brani scorrono veloci ed anche la lunga e finale “The Truth” lascia un immenso senso di piacere.
In attesa della prossima band si approfitta della pausa per rinfreschi e shopping all’area merchandise che anche questa volta prevede i pagamenti unicamente con la carta, idem per le aree ristoro che negli anni sono decisamente migliorate in termini di qualità. Si continua poi con il folk con gli irlandesi Lankum che riempiono la sala del Main Stage all’inverosimile. Il quartetto si presenta assieme ad un batterista (presente nel loro ultimo lavoro) e dà vita ad uno show che riporta la mente nei tempi antichi ma lo fa in maniera molto affine a quella della già citata Annelies Monseré. Le melodie di ampio respiro tipiche della loro terra ci sono, ma vengono poi filtrate in un mood drone decisamente cupo e drammatico dove la malinconia si muta in una certa sofferenza. I Lankum incantano alla loro maniera e si rivelano un successo clamoroso.
Prima della fine dello show dei Lankum è tempo di sonorità opprimenti, industriali e stregonesche con la performance di Lana Del Rabies, alter ego usato dalla musicista Sam An. Le coordinate sonore sono sicuramente Lingua Ignota e Diamanda Galás, quindi l’approccio vocale è feroce e disturbante mentre la componente strumentale è composta da gelide sferragliate elettroniche, amplessi gotici ed industrial disturbante. Lana si muove parecchio sul palco, si dimena, danza in maniera macabra per supportare l’ultima fatica discografica Strega Beata. Il set è nerissimo, un rito voodoo sanguinario che vuole esorcizzare i propri demoni interiori e poco dopo l’abbandono dal palco la stessa Lana si commuove per l’opportunità concessagli di esibirsi al Roadburn Festival davanti ad un pubblico caloroso che non manca di applaudirla.
Ci si avvicina nuovamente alla fine. È tempo di nichilismo sonoro ad opera di quattro figuri Alan Dubin (Old), Stephen O’Malley (Burning Witch e Sunn O)))), James Plotkin (Old) e Tim Wyskida (Blind Idiot God e Manbyrd) che assieme danno vita alla band denominata Khanate, nome di culto nel giro del doom/drone più claustrofobico e carnale. Tempi lentissimi e dilatati, bordate stordenti ai limiti della tolleranza e vocalizzi pregni di urla e lamenti: questi sono i Khanate, uno degli act più estremi usciti negli anni 2000. Il Main Stage riduce all’osso qualsiasi scenografia e luce. I musicisti sono tutti vicini scambiandosi continuamente sguardi di intesa sotto una debole illuminazione bianca. Anche questa si rivela un’esperienza più che un concerto. È un qualcosa di concettuale, di perverso ed affascinante allo stesso tempo di difficile o quasi impossibile assimilazione. Una rarità assassina che andava comunque assimilata.
È quasi mezzanotte ma si tiene duro per l’ultimo show prima del meritato riposo. Ritornano sul Main Stage i Blood Incantation per il set più incentrato sulla componente metallica del sound, seppur contenente delle sezioni sperimentali non indifferenti. Dopo il doom/drone dei Khanate ci voleva qualcosa di più immediato e i quattro musicisti non si fanno pregare, scatenando un putiferio con dei suoni micidiali a suon di bastonate death metal. Il loro stile, anche se è molto d’impatto, non ha mai una violenza fine a sé stessa e punta a qualcosa di più innovativo grazie a inserti prog psichedelici uniti all’enorme tecnica. Un bel mix di vecchio e moderno che dal vivo non fa prigionieri.
È quasi l’una e ci si avvia con tutta calma verso l’alloggio, che sfortunatamente necessita una lunga passeggiata per essere raggiunto.
21/04/2024
È l’ultima giornata e si decide di arrivare più tardi per preparare già i bagagli per il rientro del giorno dopo, oltre che un veloce acquisto di souvenir alimentari.
Con molta calma ci si avvia al festival per godere dello show degli Habitants presso l’Hall Of Fame Stage. Dato l’attuale stato di sospensione dai The Gathering, il chitarrista René Rutten porta avanti questa sua nuova creatura avvalendosi anche della pubblicazione del recente e meraviglioso album Alma che i Nostri presentano quindi al pubblico del Roadburn. Forte di una formazione consolidata (che fra gli altri vede la cantante Anne van den Hoogen dei Rosemary & Garlic, in precedenza già ospite sul disco The West Pole dei già citati The Gathering). C’è poco da fare, in quanto quando c’è la presenza di René accadono sempre magie e sebbene non ci si allontani troppo dal periodo più post/art rock della band madre si respira comunque un’aria elettrizzante. Gli Habitants stanno pian piano creandosi una propria identità ed il loro shoegaze atmosferico mira ad un sound morbido e delicato dove non ci sono mai esplosioni epicheggianti ma piuttosto un susseguirsi di melodie carezzevoli con piccoli dosaggi di distorsione. Le vocals eteree e la forza della sezione strumentale rendono il concerto favoloso che avrebbe meritato forse un contesto più grande ma è andata benissimo ugualmente.
La giornata continua in maniera molto chill e fra gli ultimi acquisti al merch e spuntini vari ci si sposta al Main Stage per curiosare nello show degli americani Grails, band post–rock strumentale nata nel 1999. C’erano molte aspettative nei loro confronti dato il forte hype per loro (il banchetto merch era parecchio fornito e preso d’assalto). Il combo punta molto su di un mood cinematografico con tanto di visuals alle proprie spalle, ma qualcosa non va per il verso giusto. Il sound rimane sempre piatto, scontato, come se temesse di osare quel tanto che basta per risultare più interessante. I pezzi si trascinano un po’ stancamente, incolori e solo a tratti emerge quell’eleganza raffinata che rendeva sfizioso un lavoro come Chalice Hymnal. Concerto davvero soporifero che pare non abbia impressionato particolarmente i presenti.
Tempo di spostarsi nel vicino Next Stage per rivedere all’opera l’irlandese Hilary Woods (forse qualcuno la ricorderà nel trio indie rock JJ72). Vista qualche tempo prima di supporto a Jozef van Wissem, la musicista optò per un set cupissimo elettronico e noisy, totalmente ermetico. Stavolta invece, accompagnata dal violinista Oliver Turvey, offre una performance più dinamica, seppure intralciata da iniziali problemi tecnici. C’è una voglia di offrire al pubblico l’intero spettro sonoro che ha caratterizzato la discografia della nostra, quindi atmosfere dark–folk, incursioni nell’elettronica più cupa, suadenti pennellate vocali, sfumature apocalittiche in un tripudio di elementi che rendono il concerto una delle migliori performance del festival.
A sorpresa presso il Little Devil, piccolo locale non molto distante dal festival, i The Keening ripropongono un ulteriore show in un contesto più intimo davanti ad un manipolo di persone che si mostrano decisamente più calorose del pubblico del Main Stage. Il concerto dimostra che la band ci sa fare anche in contesti più piccoli e non sono pochi i fan che li vanno a salutare a fine concerto per farci due chiacchiere. La setlist è stata praticamente identica al giorno prima ed è stata più un’occasione per assaporare una delle differenti del festival.
Arriva il momento di dividersi in due a causa dei diversi concerti in contemporanea, quindi si decide di vedere inizialmente i The Jesus and Mary Chain nel Main Stage dato che fino ad ora non c’era mai stata la possibilità di vederli live. La band dei fratelli Reid si presenta in un turbine di ottimi suoni e luci psichedeliche e sebbene i brani più synth-oriented tratti dall’ultimo disco Glasgow Eyes non siano il meglio della loro carriera, c’è quell’energia trascinante che in pochi possono permettersi. Il concerto è bello corposo e lungo (diciotto pezzi in totale) e attinge da tutta la discografia, includendo canzoni come “Happy When It Rains” da Darklands, “Just Like Honey” e “In a Hole” da Psychocandy, “Reverence” da Honey’s Dead o “I Hate Rock ‘n’ Roll” da Munki. Jim alla voce è il consueto mix di eleganza e grigia apatia, mentre il fratello William alla chitarra spara sui presenti un bel muro di suono con un impeto fragoroso e noise quando serve oppure più leggero nei brani più pop. Il resto della band gonfia il tiro con fragore e potenza ed è un peccato vedere ad un certo punto la sala vuota a causa dei molti che hanno deciso di andarsene per i motivi più vari. La storica band scozzese non si demoralizza di certo e continua a martellare con quell’erotismo sonoro che è come un’ondata di piacere. Si spera di rivederli presto. Il rock’n’roll ha ancora bisogno di loro.
Ci si concede un po’ di tempo nella sala accanto del Next Stage per rendere onore ad un altro pezzo di storia, ovvero i The Bevis Frond del mitico Nick Saloman con il loro particolare rock psichedelico che tributa l’era d’oro degli anni Sessanta e Settanta. Anche se visti in occasione del Pietra Sonica Fest di qualche anno fa, c’era il piacere di rivedere all’opera gli inglesi e non sono stati pochi i sostenitori, data la massiccia presenza del pubblico nella piccola sala. L’energia sprigionata è stata micidiale. Il loro approccio al rock’n’roll dall’animo indipendente, sporco e stradaiolo ha quella purezza e genuinità che manca a molti gruppi. Le melodie squisitamente british, gli assalti chitarristici alla Hendrix (ma senza dimenticare placide pennellate rustico/acustiche) ed i trip lisergici si intrecciano in un bilanciato mix scandito dalle vocals calde di Nick, uno di quei personaggi che si amano a prescindere per la sua dedizione ad una musica che probabilmente resterà nella nicchia ma al contempo sarà difficile dimenticare. Purtroppo non c’è il tempo necessario e ci si limita a vedere solo una parte dello show che sarà comunque ampiamente supportato dai presenti.
Ci si incammina in solitaria in una Tilburg buia e deserta che si prepara ad una nuova settimana lavorativa per riposare e ripartire l’indomani per il ritorno alla vita di tutti i giorni carico di ricordi, dischi (tanti), foto ricordo e autografi. Ci si rammarica di non aver potuto rendere partecipi i lettori di più cose come gli show allo Skate Park o al Paradox o alle mille iniziative extra del festival, ma si spera che il reportage abbia almeno invogliato chi non è mai stato al Roadburn di prendere in considerazione di andarci o ritornarci.
È giunta la fine di questa lunga avventura. Si ringrazia il Roadburn Festival (in particolare Walter Hoeijmakers e Becky Laverty, Jaimy Weijenberg e menzione speciale all’amico Thi).
Al prossimo anno! Un abbraccio a tutti i lettori!