Un pareggio con qualche scampolo di bel gioco nel 2015 e una travolgente vittoria nel 2018… Se dovessi ricorrere a una metafora sportivo/calcistica per mettere a fuoco l’avvio di campionato pentagrammatico dei tricolori Rome In Monochrome, sintetizzerei probabilmente così sul mio (personalissimo) cartellino le prime due sfide sostenute dal combo capitolino, alle prese peraltro con un girone tutt’altro che agevole, considerati gli squadroni-totem che da anni presidiano le malinconicamente oscure volte della scena post-/doom ad alta resa atmosferica e significative venature prog. Se, infatti, l’EP di esordio Karma Anubis, complice per la verità anche un minutaggio lillipuziano, aveva lasciato solo intravedere le potenzialità della band, il successivo Away from Light ha abbondantemente chiarito che le frecce all’arco del sestetto erano di primissima qualità, oltre che riposte in faretre stilistiche caleidoscopicamente accattivanti.
È così che tra doom, gothic, post- e prog-rock malinconico dai tratti quasi cantautorali si è creata un’alchimia in cui i richiami a Katatonia, Anathema e Antimatter sono indubbiamente riconoscibili, ma sempre maneggiati con un significativo carico di personalità che ha impedito qualsivoglia deriva verso quella fredda devozione che conduce inesorabilmente alla dimensione “cloni seriali”. Con simili premesse, il rischio è di finire ad ogni uscita sotto occhiute lenti di ingrandimento pronte (magari anche con una punta di malcelato compiacimento) a segnalare eventuali cali di ispirazione che mostrino il fianco al letale “mmmh, già sentito… e fatto meglio” che è esiziale per le sorti di un platter, ma anche stavolta i Rome In Monochrome deludono le attese/speranze di eventuali detrattori in agguato, regalando un lavoro capace di coniugare impeccabilità delle forme e tasso di coinvolgimento emotivo. Così, dopo cinque anni di silenzio e qualche modifica in line-up, questo AbyssUs conferma la straordinaria capacità dei Nostri di indossare i panni degli affrescatori di tutte le tonalità dei grigi e di cantori di autunni non solo meteorologici, rendendo plasticamente tangibile la definizione di ghost metal scelta per riassumere i contorni del viaggio. Come annunciato dal titolo, siamo al cospetto di un lavoro che invita all’introspezione, con la consapevolezza che dentro di noi dimora un pesante fardello di ricordi dolorosi, tempeste interiori, solitudini e fatiche che lasciano il segno, ma se da un lato la vista dell’abisso può generare panico e sgomento, dall’altro le umane fragilità sono ciò che ci identifica e contraddistingue come specie in grado di superare la dimensione individuale per entrare in contatto coi nostri simili, offrendo percorsi in cui compassione e condivisione assumono un ruolo fondamentale. Anche stavolta dunque, come nel predecessore, l’orizzonte non è tormentato da lampi tragico/titanici ma si colora piuttosto di chiaroscuri, trasmettendo una sensazione di smarrimento che assume in più di un’occasione i tratti di un abbandono quasi poetico. Il risultato è una somma di raffinati diorami che sembrano animarsi progressivamente ma che non varcano mai davvero la soglia di una resa cinematografica tout court, quasi a voler sottolineare che Spazio e Tempo saranno anche le imprescindibili chiavi di volta per comprendere l’universo fisico che ci circonda ma perdono potere al cospetto dell’Infinito che ci portiamo dentro. Sul versante dell’esecuzione, i musicisti coinvolti si confermano una garanzia assoluta, a cominciare dalla coppia Riccardo Ponzi/Flavio Castagnoli, affiatati metronomi di una sezione ritmica impeccabile, passando per le sei corde di Marco Paparella e di un Gabriel Sassone protagonista di un gran debutto in modalità lead guitar, per arrivare all’altro innesto più che riuscito, Gaetano Savoca, alle prese con trame e orditi di tastiere e pianoforte incantevolmente incastonati nel corpo dei brani. Last but mai come in questo caso not least, a dare colore e gusto definitivo alla pozione magicamente distillata provvede la prova al microfono di Valerio Granieri, titolare di uno dei timbri vocali più originali su queste frequenze grazie al suo clean cantilenato solo apparentemente distaccato e quasi asettico, ma che col crescere degli ascolti avvolge e proietta in dimensioni parallele, tra nebbie e vapori che velano la vista rendendo incerti i contorni del paesaggio. Otto tracce per cinquanta minuti di ascolto complessivo, AbyssUs salta i preamboli e si presenta subito con un carico da novanta del calibro di “To Mourn The Shade Of Your Love”, opener perfetta come manifesto artistico della band con i suoi continui saliscendi emozionali che spaziano da languidi abbandoni a passaggi più muscolarmente orientati. Si cambia parzialmente registro con la successiva “Antiheart”, permeata dallo stesso retrogusto narrativo quasi epic che aveva animato una “A Solitary King”, nel predecessore (che non sia del tutto casuale, la medesima posizione occupata in tracklist?), mentre tocca a “Stains” dimostrare che orecchiabilità e potabilità non sono necessariamente sinonimo di approcci superficiali e di corto respiro, tanto meno se, come in questo caso, puoi giocare l’asso di una Yasmin Kalach perfettamente calata nella parte dell’ospite tutt’altro che ornamentale. E, a proposito di carte vincenti su cui costruire il destino di un intero platter, ecco calare sul tavolo la magnifica “Post You”, summa crepuscolare/malinconica delle potenzialità dei Nostri quando si avventurano su rotte sognanti ed eteree, tra echi Anathema e ricami di sei corde dai tratti gilmouriani. Quasi per inevitabile contrappasso, scocca subito dopo l’ora della perla tempestosa della compagnia, “A Tomb Beyond the Futhest Star”, che, dopo un avvio visionario appena velato di inquietudine, si contorce improvvisamente imbarcando linee di forza doom/death che strappano la trama sotto i colpi magistrali di un Alexander Högbom in libera uscita dalla casa madre October Tide. Detto di una “Anatomical Machine” che rallenta i ritmi in una sorta di cristallizzazione dai contorni space, si decolla di nuovo con le accattivanti melodie di “Sedatives”, altro brano che sfonda agevolmente il muro dell’easy listening senza il minimo danno da impatto grazie a un’andatura progressive/atmospheric rock dietro cui, oltre alla prevedibile ombra dei fratelli Cavanagh, Granieri disegna con la dovuta accortezza anche la sagoma di Michael Stipe. E l’andatura prog (qualcuno ha detto ultimi Opeth?) si conferma cifra stilistica imprescindibile anche nella conclusiva “The Dissonant” che si candida a potenziale versione 2.0 di quella “Paranoia Pitch Black” che, a parere di chi scrive, era stato l’anello (relativamente) debole della catena per il resto ineccepibile di Away from Light. Grande apertura affidata al pianoforte di Savoca, qualche attimo di smarrimento contemplativo, un riff di scuola classic rock e poi via, verso una chiusura “corale” che dispensa coriandoli di luce invitandoci ad aprire le ali… serve altro, per un finale da applausi?
Elegante, raffinato e curatissimo nei dettagli ma contemporaneamente dotato di un motore emozionale che impedisce qualsivoglia deriva freddamente cerebrale, struggente al limite della commozione per tutti coloro che amano viaggiare in territori in cui l’oscurità sia forse l’inevitabile approdo ma non ancora l’unica protagonista, AbyssUs è la clamorosa conferma di una band in evidente stato di grazia creativa e dotata di una non meno lampante capacità di maneggiare da fuoriclasse una materia ad altissimo rischio di inflazione. Le basi poste in passato erano già più che solide, ma qui siamo al cospetto di una costruzione che bussa prepotentemente alle porte dell’empireo; che ad aprire ai Rome In Monochrome siano custodi doom, prog o post poco importa, ciò che conta è accoglierli con i dovuti onori.
(Art Gates Records, 2023)
1. To Mourn The Shade Of Your Love
2. Antiheart
3. Stains
4. Post You
5. A Tomb Beyond the Furthest Star
6. Anatomical Machine
7. Sedatives
8. The Dissonant