Post metal = sludge + melodia + atmosfera… Sarà capitato sicuramente quasi a tutti di imbattersi in una delle classiche semplificazioni a cui anche buona parte della critica deve far ricorso per condensare in poche parole il perimetro (e le radici storiche) di un genere musicale, soprattutto in un’epoca come la nostra che non ama particolarmente le risposte articolate alle domande dirette, anche a rischio di mettere in cottura calderoni fumanti di banalità e luoghi comuni che non sempre aiutano a cogliere l’inevitabile complessità di un intero movimento.
Ecco allora che, a fronte di una definizione così lapidaria, la traiettoria artistica ormai quasi ventennale dei Russian Circles ha assunto fin dall’inizio i tratti dell’orbita eretica, mettendo in secondo piano la componente sludge a vantaggio di un approccio prog che ne ha contraddistinto tutta la prima fase della carriera, a partire da un debutto a 24 carati del calibro di Enter. Da quel momento, confermando la scelta della rinuncia al cantato (con la sola eccezione della breve apparizione di Chelsea Wolfe nella title-track che chiude Memorial), il terzetto non ha mai smesso di sperimentare nuove soluzioni e combinazioni, dimostrando una capacità innata di aggirarsi in territori disparati riuscendo sempre a coinvolgere emozionalmente l’ascoltatore e tenendo a debita distanza quel rischio di fredda cerebralità e compiaciuta autoreferenzialità che è la vera spada di Damocle che incombe su chi scelga di solcare le rotte post. C’è sempre dunque, possiamo dire fisiologicamente, un discreto alone di incertezza intorno alle coordinate che i Nostri andranno a tracciare in ogni nuova pubblicazione, a maggior ragione stavolta, dopo un lavoro come Blood Year che, pur senza dover parlare necessariamente di una svolta, nel 2019 aveva accentuato il versante pesante e oscuro della proposta. Ed effettivamente questo Gnosis conferma il processo avviato dal predecessore, trasmettendo una sensazione di “monoliticità” complessiva dell’impianto tale da proiettare sulla scena ombre sinistre e inquietanti più che attimi di malinconico abbandono. Non che, in passato, i Russian Circles abbiano trascurato le potenzialità di impatto di un genere che comunque riserva praterie sconfinate per chi abbia intenzione di attraversare lande obliquamente illuminate, ma, stavolta, l’accento posto su imponenza delle strutture, cavalcate telluriche e momenti di vera e propria aggressività diventa uno dei tratti davvero distintivi dell’intero viaggio, gareggiando in durata e efficacia con le aperture melodiche, che restano comunque una freccia importante nell’arco della band. Sull’altro piatto della bilancia, però, attenzione a non enfatizzare oltremodo gli elementi di discontinuità, perché la cifra stilistica di Gnosis si iscrive comunque tranquillamente nel solco della tradizione di un gruppo che ha sempre innalzato la bandiera della visionarietà tra i cardini della propria poetica, con un’attitudine cosmic/space che, più che musicalmente intesa in senso stretto, rimanda allo spirito di viaggi interstellari in modalità spettatori di fronte agli spettacoli maestosi che animano e sconvolgono gli spazi siderali al di là della calma apparente che sembra regnare sulla volta celeste. E che quello che ci aspetta non sarà un rassicurante diorama di immagini bucoliche, è chiarito immediatamente dall’opener “Tupilak” (essere artificiale della mitologia inuit, creato dagli sciamani su richiesta per eliminare un nemico o un rivale), che solleva schizzi di fango sludge su una base tribalistica di stampo neurosisiano rendendo plasticamente l’idea della caccia serrata all’obiettivo a cui rimanda il titolo del brano. I giri del motore salgono ulteriormente con la successiva “Conduit”, tutta giocata sul dialogo contrastato, al limite della dissonanza, tra la sei corde di Mike Sullivan e il muro delle pelli percosse forsennatamente da un Dave Turncrantz mai così protagonista, tra i solchi. Siamo, a questo punto, a oltre dieci minuti di tempesta variamente declinata e ad abbassare i toni ristabilendo una parvenza di equilibrio provvede l’ipnotica title-track, che ci fa perdere in un labirinto inquietantemente incantato a metà strada tra suggestioni Tool e riflessi dei Rosetta di The Galilean Satellites (nota di merito particolare, qui, per l’effetto dei rintocchi di basso “zanzaroso” sfoderati da Brian Cook). C’è giusto il tempo di illudersi di essere tornati in piena ortodossia post ed ecco che le carte si sparigliano di nuovo con la coppia “Vlastimil/Betrayal” (separate dal diafano intermezzo “Ó Braonáin”), che osa inerpicarsi su inattesi tornanti black in un’esplosione di suoni mai così potenti e contemporaneamente in creativo contrasto e conflitto, nella carriera dei Nostri. Siamo indubbiamente al cospetto di due tracce potenzialmente spiazzanti, per chi nel loro nome ha innalzato un tempietto votivo sulle note di Enter, ma va detto che l’escursione in siffatti (caotici e rumorosi) territori è alla prova dei fatti del tutto nelle corde della band, al punto da rappresentare un possibile, fertile punto di partenza per future e ulteriori esplorazioni. Terminato il bombardamento a tappeto, il saluto ai naviganti è affidato a un ipotetico Poseidone pentagrammatico che, appoggiando il suo tridente, plachi improvvisamente le onde e scocca quindi l’ora del brano più etereo e melodicamente ispirato della compagnia, “Bloom”, attraversato da una corrente crepuscolarmente alcestiana che riporta un raggio di sole sugli equipaggi al rientro dopo le dure prove affrontate.
Otto album, otto esperienze sensoriali diverse eppure unite da solidi e riconoscibili fili conduttori, la carriera dei Russian Circles continua a dispensare gemme preziose in un genere dove è sempre difficile riuscire a evitare di rifugiarsi in comodi e rassicuranti cliché. Finché ci saranno album come Gnosis, l’universo post può stare tranquillo, al di là e oltre le definizioni che cercano di chiuderlo in rassicuranti recinti, avrà sempre un carico di infinito a cui attingere, per volare alto.
(Sargent House, 2022)
1. Tupilak
2. Conduit
3. Gnosis
4. Vastimil
5. Ó Braonáin
6. Betrayal
7. Bloom