
Non sempre le contaminazioni (che continuiamo a considerare come l’unica cosa veramente necessaria in ambito musicale) riescono ad ottenere l’effetto desiderato. Spesso capita che il risultato non sia all’altezza delle attese o delle intenzioni. Non è questo il caso degli Smote. La band britannica è infatti riuscita a realizzare un album di grandissimo spessore, riuscendo a fondere, e plasmare, con grande eleganza, sonorità estremamente dissimili grazie ad un approccio, e una visione di insieme, che solo una mente in grado di guardare con lucidità al di là delle convenzioni poteva mettere in atto. Il disco, il quinto per la Rocket Recordings per il progetto capitanato quasi in solitaria da Daniel Foggin, inglese di Newcastle, prosegue nella sperimentazione orientata verso un approccio ossessivo.
Songs from the Free House si caratterizza infatti per il fatto di riuscire, praticamente sin da subito, ad avvolgere l’ascoltatore con un senso di straniante e ingravescente ansietà che sembra quasi soffocare, in virtù di un’enfasi assillante che non dà tregua. Un album decisamente claustrofobico, da cui però non riusciamo a staccarci, nemmeno per un istante. Un album che, riascoltato a distanza, riuscirà a stupirci ancor di più, e ancora meglio che al primo trascinante e delirante ascolto. Il disco – come gli stessi Smote tengono a precisare – è da vedere come una sorta di “viaggio trascendentale”. Noi, che non siamo soliti riprendere fedelmente i comunicati stampa, in questo caso sentiamo di dover fare un’eccezione, e sottoscriviamo in toto le parole della band. Questo di Smote è quindi, a tutti gli effetti, un album “libero” che riesce a coniugare diverse declinazioni sonore, ma tutte comunque orientate verso un approccio minimalista di grande eleganza (e impatto) che ruota intorno ad uso della componente vocale quasi ritualistico. Con Songs from the Free House Foggin dà ampio sfogo alla creatività, costruendo un disco partendo dal flauto, qui assoluto mattatore della scena. Il tutto risulta funzionale anche perché accompagnato da un lavoro alle percussioni che, in un crescendo di pathos e tribalità, ci porta verso il climax dell’album senza che si possa anche solo pensare di distaccarcene. Caratterizzato da un’anima folk, impreziosita dalla presenza di Ian Lynch dei Lankum alle cornamuse, l’album si proietta verso la riscoperta delle tradizioni locali, delle radici e dell’anima, attraverso un’alternanza tra strumenti a fiato e droni che calano opprimente sulle nostre teste.
In sostanza possiamo guardare a Songs from the Free House come a un disco che sa essere primordiale, ma senza diventare grezzo (come invece spesso accade). Un disco sporco che mostra tutta la sua rudezza e la sua forza dirompente, e che ci porta ai confini più oscuri delle realtà che conosciamo, e che – crediamo – possa rappresentare – ad oggi – il punto più alto qualitativamente parlando per Smote. Anche e soprattutto per la sua capacità di riuscire ad essere catartico e vibrante, misterioso e inquietante, senza però perdere minimamente di impatto. Un album imprevedibile che non lascia mai intendere dove voglia portarci.
(Rocket Recordings, 2025)
1. The Cottar
2. The Linton Wyrm
3. Snodgerss
4. Chamber
5. Wynne


