A confermare lo stato di salute di cui gode il panorama post-rock/metal oceaniano arrivano gli Spook The Horses, combo di Wellington, Nuova Zelanda, che con People Used to Live Here arriva all’importante traguardo del terzo album. A quest’appuntamento, generalmente considerato cruciale in una discografia, la band si presenta con un suono del tutto rinnovato, che con le uscite precedenti condivide, a voler essere larghi, giusto il mood di base. Brighter (2011) e soprattutto Rainmaker (2015) sono due ottimi esempi di post-metal abbastanza canonico ma ben suonato e ben composto, complice un’aggressività sincera e viscerale. Proprio quest’elemento viene a mancare oggi: le distorsioni sono radicalmente censurate, le voci molto meno presenti e interamente clean, le atmosfere si dilatano e si comprimono.
Le note di presentazione descrivono l’album come una “soundtrack to abandoned places”, in maniera pienamente coerente non solo con il titolo, ma anche con il contenuto di People Used to Live Here. L’idea di colonna sonora è preponderante sin dalle prime note di “Lurch”: alla quantità di note è preferito un suono riflessivo e minimale come nella miglior musica per immagini. Allo stesso tempo i Nostri evidenziano un’attitudine per i suoni lugubri e circolari, inquietanti come dei luoghi oggi abbandonati, ma che “at one point in time, long ago” erano abitati, e dai quali traspare di conseguenza un vissuto umano decaduto, come vita in dissolvenza. Se l’intento degli Spook The Horses è creare una musica visiva – la presenza fissa in formazione di un visual artist la dice lunga in questo senso – e delle immagini mentali, come quelle appena descritte, il risultato non può che dirsi soddisfatto. Il tessuto musicale varia in minima parte di brano in brano senza presentare importanti rivoluzioni: da momenti vagamente jazzati (“Lurch”, “Crude Shrines”) a un raccolto post-rock con voci sommesse à la American Football (“We All Know Your Name”), passando per inserti di synth (“Near Then, Far Now”) e momenti al limite del drone (“Herald”).
Il pregio della band neozelandese, oltre alla già affermata capacità pittorica, risiede nel saper riconoscere i propri limiti: nei suoi quaranta minuti scarsi, l’album non eccede in divagazioni strumentali o in loop ciclici e ossessivi che lo renderebbero decisamente ostico, data la propria essenza sottile e fluttuante. Anzi, forse un incremento nella sostanza potrebbe rendere la proposta ancor più coinvolgente. In ogni caso, considerato il suo status di primo esperimento con nuove coordinate sonore, People Used to Live Here non può che essere consigliabile ai fan di certo post-rock, sicuramente più debitore dei ’90 che dei 2000, ma a suo modo contemporaneo.
(Pelagic Records, 2017)
1. Lurch
2. Crude Shrines
3. Blessed Veins
4. Made Shapeless
5. Near Then, Far Now
6. Herald
7. We All Know Your Name
8. Following Trails