“There was a moment, I know, when I was under in the dark, that something… whatever I’d been reduced to, not even consciousness, just a vague awareness in the dark. I could feel my definitions fading. And beneath that darkness there was another kind—it was deeper—warm, like a substance”
Le parole che trovate in apertura di questa recensione sono quelle del monologo che chiude la prima stagione della serie tv True Detective. Per vari motivi trovo che si sposino alla perfezione o quasi al nuovo disco solista di Steve Von Till, artista che non ha di certo bisogno di interpretazioni e che con questo Alone in a World of Wounds sembra chiudere un cerchio della sua carriera solista cominciata venticinque anni fa con As the Crow Flies. Un discorso portato a compimento, quindi, dove i due estremi che hanno caratterizzato l’espressione musicale del Von Till solo, ossia da una parte la dilatata sperimentazione ambientale e orientata verso il drone, dall’altra l’inquieto cantautorato roots e Americana, si coniugano magistralmente negli otto brani che compongono l’album. A collante di tutto, la magnifica, solenne, profondissima voce che il musicista ha avuto in dono.
Difficile, arduo, parlare del disco analizzando le singole tracce una ad una. A un primo ascolto verrebbe quasi spontaneo e l’impressione è data dalla ricca varietà di ispirazione e strumentazione nelle varie canzoni. È necessario, però, resistere alla tentazione di farlo, di parlare di ognuna di loro, della loro diversa tensione, di una soffusa ma marziale batteria che compare, di arpeggiatori e chitarre perché questo sarebbe il modo in cui si perderebbe il vero valore di un album che, se ascoltato per intero, va a disegnare un’atmosfera torrida e polverosa che sarebbe stupendo e calzante commento sonoro appunto a True Detective o, rimanendo sempre nell’ambito delle serie televisive, American Primeval (e infatti la soundtrack è a carico degli Explosions in the Sky, per dare una traiettoria e un senso al discorso) o la discussa The Preacher. In certi frangenti sembra che Von Till sia diventato oramai un esperto crooner, capace di modulare la propria voce a seconda delle emozioni che vuole trasmettere (una sensazione vicina a quella della scoperta di quello che a mio avviso è il picco creativo di Nick Cave & The Bad Seeds, ossia The Boatman’s Call, ma anche quella di un tributo all’enorme Mark Lanegan), in altri siamo di fronte a un country destrutturato oppure riecheggia la progressione armonica del folk irlandese. La strumentazione utilizzata nelle otto tracce è molto ampia e variegata e magistrale è l’uso che ne viene fatto visto che la ricchezza non appare mai come orpello o barocchismo ma anzi crea delle stratificazioni estremamente funzionali al singolo pezzo e quindi dell’intero disco. Forse sta proprio qui il valore, grande, di Alone in a World of Wounds, ossia essere un’opera nient’affatto monotona e piatta e, allo stesso tempo, avere un orizzonte ben chiaro e definito. Di certo ha contribuito alla riuscita dell’album la collaborazione di tanti ottimi musicisti che Von Till, coadiuvato dall’esperto e poliedrico produttore Randall Dunn, ha condotto in modo impeccabile nel suo “mondo di ferite”.
Un blues per un sole che mai tramonta, forse questa è la migliore definizione per questa magnifica opera creata da un artista che, a 55 anni, dimostra di aver raggiunto un’invidiabile maturità e padronanza. Forse Steve Von Till non deve dimostrare, dimostrarci e dimostrarsi nulla, avendo già una carriera che lo pone tra i musicisti più rispettabili che esistano. Che stia proprio in questo aspetto il valore aggiunto di Alone in a World of Wounds? Sì, viene proprio da pensare questo vedendo come la solida struttura di una storia personale, professionale e musicale venga rielaborata per produrre un gioiello unico. Questo, ecco, insieme alla sensazione di trovare e ritrovare un compositore e un esecutore libero, sì di portarci in un mondo doloroso che è allo stesso tempo accecante e buio, ma soprattutto di spremere tutta questa angoscia per regalarci qualcosa di magnifico che ci possa mostrare la luce della vera bellezza. A testimone di tutto ciò andrà citata una canzone, contraddicendo ciò che sopra è stato scritto, ossia la conclusiva “River Of No Return”, dal titolo e dal testo così drammatici, che però riesce a essere avvolgente, splendida e splendente nella sua semplicità. Come e quindi, del resto, tutto l’album.
“Well, once there was only dark. You ask me, the light’s winning.”
(Neurot Recordings, 2025)
1. The Corpse Road
2. Watch Them Fade
3. Horizons Undone
4. Distance
5. Calling Down The Darkness
6. The Dawning Of The Day (Insomnia)
7. Old Bent Pine
8. River Of No Return