Steve Von TIll rappresenta indubbiamente una delle personalità più magnetiche del panorama metal degli ultimi trent’anni, avendo marchiato a fuoco la sua carriera con l’esperienza Neurosis. Parallelamente a ciò si è dedicato ad altre produzioni artistiche di livello come il progetto solista, Harvestman, Tribes of Neurot e, non ultimo per importanza, alla poesia. Dopo tre anni di silenzio dall’ultimo lavoro targato Harvestman, Music for Megaliths, il vertice più mistico dell’esagono Neurosis si ripropone al pubblico come entità solista, dando alla luce nell’estate 2020 No Wilderness Deep Enough.
Fughiamo subito ogni perplessità. Se dovessero chiedere a chi scrive dove collocare questo disco nella discografia dell’artista, forse con un po’ di supponenza, non avrebbe dubbi: No Wilderness Deep Enough è uno degli apici compositivi del musicista americano, la sublimazione perfetta del suo concetto di intimismo, ricerca della bellezza e minimalismo sonoro. La voglia di sperimentare e di aprire i propri confini da parte di Steve Von Till è palese. Le influenze minimalistiche del compositore islandese Jóhann Jóhannsson si incastrano con gli echi di un presentissimo Nick Cave o all’imprescindibile Robbie Basho, arricchendo il suono e guardandolo crescere con soddisfazione, e armonia. A quanto pare No Wilderness Deep Enough sarebbe dovuto venire alla luce come un album Ambient, completamente strumentale, ma il produttore Randall Dunn (Sunn O))), Earth, Marissa Nadler, etc..) avrebbe dissuaso Steve Von Till da questa scelta stilistica, spronandolo a scrivere dei testi che si adattassero alle immagini create dalla musica. Il risultato di questo processo creativo è stato un disco il cui pilastro principale è, come in passato, ovviamente proprio la voce roca di Steve, a volte echeggiante in una landa dormiente, altre volte graffiante e suadente come il già citato Nick Cave con i suoi ultimi lavori.
A tutto ciò si aggiungono, tutt’altro che di contorno, loop elettronici rarefatti, violoncello e pianoforte, perfettamente amalgamati in una danza lontana. Il risultato può colorare vasti paesaggi, tipicamente americani, innevati e pieni di linfa vitale oppure profondissime (ma quiete) caverne, dove la voce di Steve riecheggia come uno sciamano. Parlare di No Wilderness Deep Enough sminuzzandolo e analizzandolo come un insieme di canzoni, non solo sarebbe miope o controproducente, ma forse quasi offensivo nei confronti di chi l’ha ideato. Ci troviamo di fronte infatti ad un unico grande flusso primordiale ed astratto, formato in egual misura da elementi naturali ed elettricità, un viaggio in cui Steve Von Till ci accompagna come un novello Virgilio, alla ricerca del nostro primitivismo e del ritorno alla natura, entrambi elementi che si stanno appannando sempre di più in questa strana epoca in cui viviamo.
In questi anni Steve Von Till ci ha abituato a dischi e progetti decisamente sopra la media, tanto onesti quanto profondi, ma con No Wilderness Deep Enough si è decisamente superato, creando un disco che probabilmente sarà ricordato come uno dei più rappresentativi e riusciti del suo percorso. L’atteggiamento con cui ci si deve porre al disco non è comune: non può essere apprezzato in tutte le situazioni e con ogni strumentazione. Rappresenta la colonna sonora perfetta per un viaggio dentro sé stessi, osservando da lontano un cielo che si rannuvola, e più in generale, contemplando la bellezza incontaminata della natura. Siamo davanti ad un piccolo gioiello.
(Neurot Recordings, 2020)
1. Dreams of Trees
2. The Old Straight Track
3. Indifferent Eyes
4. Trail the Silent Hours
5. Shadows on the Run
6. Wild Iron