Ogni uscita del trio capitanato da Aaron Turner – tra i padri dei sempre troppo poco compianti Isis – e composto anche da Brian Cook e Nick Yacyshyn, sembra virare verso lidi sempre più musicalmente estremi, soprattutto per quanto riguarda accessibilità e composizione. Ricordando gli episodi precedenti targati Sumac, The Healer si muove verso una direzione che rappresenta una vera e propria sfida all’ascoltatore: una forma di sludgecore improvvisato con approccio noise/free-jazz à la John Zorn che ha proprio come obiettivo quello di spazientire, sfiancare e rendere esausti chiunque vi si approcci.
Prendiamo come brano esemplificativo l’opener “World of Light”, colma di contraddizioni a cominciare dal titolo che cela, sotto mentite spoglie, una cavalcata misticamente oscura, animalesca, terrificante, spasmodica. L’evoluzione del pezzo avanza a volte per privazioni, a volte per lievi aggiunte, quasi a voler giocare al gatto col topo con chi assiste a questa pièce alienante che a tratti assomiglia a una jam session di tre ragazzi che accordano gli strumenti in sala prove. Il pezzo ingrana dopo dodici minuti circa su venticinque totali con una lentezza pachidermica, quasi come se l’unico obiettivo sia quello di creare un anti-climax che debba spiazzare continuamente e che, poco dopo, collassa su un altro pattern semi-improvvisato di chitarra che ricrea lo stesso stato di irrequietezza di partenza. Il pezzo finalmente esplode in un’evoluzione sludge/hardcore/math che francamente funziona e coinvolge in tutto il suo nichilismo, probabilmente potenziato dai precedenti venti minuti in cui la tensione si è tagliata a fette. Ed è qui che i nostri danno il meglio, facendo vedere come tutto il dolore passato e provato in precedenza giunga finalmente a guarigione – o meglio – cancrena, dato il contesto. Sulle stesse coordinate si muove la conclusiva “The Stone’s Turn”, tutto parte di un rituale che pare abbia come fine quello di temprare le sfide mortali e spirituali proprie dell’esistenza umana, mediante una rozza psichedelia sonica discontinua. A detta dei Sumac questo modo di evolvere i pezzi dovrebbe rappresentare un tentativo di aumentare l’empatia e l’educazione all’ascolto dell’altro in modo più che estremo attraverso continui collassi, esplosioni, abbozzi, corruzioni e fioriture. “Yellow Dawn” e “New Rites” invece sono composizioni più basate sull’evoluzione di alcuni riff granitici sludge/hardcore conditi da dissonanze e drone/noise ormai marchio di fabbrica dei Sumac che ormai sembrano sguazzare nelle frequenze distorte tipiche dei cetacei.
In conclusione possiamo solo apprezzare l’intento artistico che muove i Sumac che, indubbiamente, hanno ben chiara la direzione del progetto e anche come realizzare determinate scelte concettuali utilizzando la musica estrema. Ma la coerenza artistica quanto paga alla fine? Alla lunga l’ascolto non propriamente accessibile e molti passaggi forse gratuitamente allungati potrebbero far durare poco tale lavoro nelle nostre playlist o sui nostri hard disk, fermo restando che, comunque, solo per gli intenti artistici da puristi della filosofia musicale, The Healer è un passaggio degno di nota nella discografia dei Nostri e meritevole di svariati ascolti, se si è nel mood giusto.
(Thrill Jockey Records, 2024)
1. World of Light
2. Yellow Dawn
3. New Rites
4. The Stone’s Turn