Una landa sempre meno per pionieri e a sempre più alto rischio affollamento di cloni seriali che si affannano con dubbie probabilità di successo nel tentativo di lasciare un segno nella storia di un genere… Dopo i fuochi d’artificio che ne hanno accompagnato il big bang primigenio, il post metal strumentale sembra inviare da qualche tempo preoccupanti segnali di stanchezza, figli per alcuni delle geneticamente non infinite possibilità di combinazione della materia e per altri di una sempre più marcata tendenza alla cerebralità e a una conseguente autoreferenzialità che finisce per regalare lavori formalmente impeccabili ma di non pari valore sul versante del coinvolgimento emotivo. Fortunatamente però, in attesa di capire se si tratti di eccezioni che confermino la regola o della dimostrazione che i confini del genere sono tutt’altro che raggiunti, qualche vascello riesce ancora a sfuggire alle correnti e ai venti dominanti e ad avventurarsi in acque se non ignote quantomeno cristalline, se solcate con il dovuto carico di personalità.
E’ indubbiamente questo il caso dei Sūrya, capaci di colpire non lontano dal centro il bersaglio della qualità già in occasione del debutto di tre anni fa, Apocalypse A.D. e candidandosi subito a un ruolo di grande promessa del panorama post grazie a una sorprendente capacità di combinare una raffinata base atmosferico/melodica con passaggi stroboscopicamente illuminati da luci psichedeliche o avvolti da pesanti penombre di chiara impronta doom. Non stupisce, allora, che il loro ritorno sulle scene fosse atteso con particolare interesse da tutti coloro che avevano apprezzato la freschezza di un lavoro in grado di scomodare nobili ascendenze senza scadere mai nella derivatività e questo secondo capitolo davvero non tradisce le attese, certificando definitivamente la stoffa fuori dal comune del quartetto londinese che richiama nel moniker la divinità induista del sole.
Il merito dei Sūrya è di essere riusciti a riproporre in questo Solastalgia la formula vincente del predecessore adattandola ancora una volta a un piano di volo ambizioso anche sul fronte dei contenuti, trattandosi di tradurre in musica quella “forma di disagio psicologico o esistenziale causato dal cambiamento ambientale” preannunciata dal titolo. Il senso di una natura (almeno per come l’abbiamo conosciuta) sopraffatta dalla dittatura di una specie predona, i guasti di quella che ostinatamente continuiamo a chiamare civilizzazione, la malinconia per la bellezza che stiamo consumando nel nome del profitto, l’inevitabile apocalisse sullo sfondo, tutti i temi oggetto del dibattito sulla tragedia climatica alle viste sono chiamati a raccolta e resi magnificamente sul pentagramma, a metà strada tra la constatazione dell’irreversibilità del processo in atto e un estremo tentativo di scuotere coscienze colpevolmente addormentate.
Per raggiungere musicalmente l’obiettivo viene scomodato praticamente l’intero pantheon post e davvero ci si può dilettare a identificare gli echi delle reminiscenze, dai Neurosis ai Godspeed You! Black Emperor, passando per Pelican, Russian Circles o Red Sparowes (senza dimenticare la circolarità isisiana e, soprattutto, quella sorta di trance sciamanica che ha reso immortali gli album di casa Minsk), ma alla fine di ogni singola traccia a dominare sarà sempre l’ammirazione per la capacità della band di trascinare l’ascoltatore in una dimensione parallela in cui la visione d’insieme è decisamente superiore alla somma delle singole parti. Anche stavolta, sostanzialmente, possiamo collocare il platter in un perimetro “strumentale” ma va detto che gli apporti vocali (prevalentemente sotto forma di parlato in modalità trasmissione radio, anche se non mancano brevi incursioni in scream) sono molto più che semplici cammei, risultando fondamentali per una drammatizzazione decisamente più marcata rispetto al debut. Detto di una sezione ritmica che macina pesantezza e oscurità attingendo con pari profitto dalle profondità del doom e da una misurata magniloquenza e del magnifico lavoro delle sei corde che si destreggiano perfettamente fra traiettorie allucinate e campi lunghi in cui il ritmo è quasi poeticamente sospeso, è praticamente impossibile individuare i momenti migliori e quelli eventualmente meno riusciti di una tracklist che non conosce cali di tensione o ispirazione.
Rimane forse il solo rammarico di un timing complessivo che supera appena i trenta minuti; dopo i cinque brani, di cui uno, “Fenland”, minimalista non solo in termini di minutaggio, la sensazione è quella di una prematura discesa dall’astronave su cui ci aveva subito fatto accomodare l’opener “Anthropocene”, autentico diorama d’autore intriso di suggestioni space più spettrali che contemplative, a ricordarci che ad andare in scena non è uno spettacolo ma una tragedia. Raggiunta immediatamente la vetta della quasi eccellenza, i Sūrya non l’abbandoneranno più: che si tratti di toccare corde melodiche con “The Purpose” o di innalzare monoliti che proiettano la loro ombra minacciosa con “Black Snake Prophecy” (opportunamente rilasciata in anteprima dalla Argonauta Records e accompagnata da un ottimo video), il risultato non cambia e se qualcuno avesse dubbi sulle capacità multidirezionali della band c’è sempre la conclusiva “Saviours”, che carica l’atmosfera di malsani vapori di scuola Amenra prima di strappare il sipario con un’inattesa quanto riuscita stilettata black.
Visionario, profetico, apocalittico ma allo stesso tempo struggente e in grado di aprire finestre da cui far filtrare un tocco poetico di rara delicatezza, Solastalgia ha tutte le carte in regola per occupare uno dei posti d’onore nelle post metal chart di questo 2019. Per i Sūrya solo applausi… e l’auspicio di non essere una delle ultime orchestre ad aver suonato (invano) nella sala ricevimenti della Terra-Titanic avviata al fatale incontro con il suo iceberg.
(2019, Argonauta Records)
1. Anthropocene
2. The Purpose
3. Fenland
4. Black Snake Prophecy
5. Saviours
8,5