“So bene che non dovrei dirlo, ma odio profondamente questo album. Odio dove mi porta, come mi fa sentire e cosa rappresenta per me. Vorrei che non lo facesse. Ma in tutta onestà, non ho altra scelta che amarlo, anche. Questo è tutto ciò che conta per me, con la musica. Non importa come mi fa sentire, finché lo fa.”.
Con queste parole, con la solita confessione a cuore aperto che da sempre contraddistingue il suo rapporto con gli ascoltatori certificando una non comune corrispondenza tra arte e vita, il mastermind Juha Raivio presenta l’ottava fatica sulle lunghe distanze degli Swallow The Sun, che giunge a stretto giro di rilascio dopo il monumentale CD/DVD Live in Helsinki in cui hanno celebrato il ventennale di una carriera spesa a indagare le anse dolorose e contemporaneamente poetiche della fatica di vivere e dell’oscurità che la accompagna non solo metaforicamente. Alfieri planetariamente riconosciuti del miglior doom/death d’autore di scuola scandinava, del combo di Jyväskylä ha sempre dispensato a piene mani lavori capaci di varcare la soglia dell’immortalità, senza mai ricorrere a meccaniche riproduzioni di una formula consolidata né a virate stilistiche che ne rendessero irriconoscibile il marchio, meritandosi così più di un trono nei pantheon di chiunque cerchi nella musica un’occasione per partire alla scoperta degli abissi che dimorano dentro di noi e contemporaneamente ci sovrastano. Saper guardare negli occhi il dolore e riconoscerne l’imprescindibilità come tratto fondante dell’umana natura è stata una caratteristica dei finlandesi fin dal magnifico debut The Morning Never Came, ma, a questa attitudine artistica già geneticamente inscritta nelle corde della band, la realtà si è incaricata di aggiungere un drammatico carico da novanta che ha sconvolto l’esistenza di Raivio, con la prematurissima scomparsa della compagna Aleah Stanbridge e la conseguente discesa negli inferi della disperazione, da cui era riemerso prima affrontando il ricordo e poi “liberandolo” nella consapevolezza che i nostri corpi sono prigionieri dei limiti di un’esistenza terrena ma, dopo la morte, sono destinati a tornare nel grande flusso dell’Infinito (il singolo Lumina Aurea è il testamento artistico di questo viaggio sospeso tra abisso e catarsi). Indubbiamente, lo scorrere del tempo ha modificato più di qualche aspetto della poetica degli esordi ed è innegabile una progressiva contrazione della componente death a favore di un rapporto più stretto con gli afflati melodici (così come un rientro nei canoni classici della “forma canzone”, con la struttura strofe/ritornelli/riff in evidenza), ma in nessuna circostanza è emersa la tendenza a un approdo sui comodi e ruffiani binari dell’easy listening, nemmeno in un lavoro come When a Shadow Is Forced into the Light che, nel 2019, aveva incrementato la potabilità dell’insieme varcando addirittura in qualche passaggio la soglia dell’appeal radiofonico.
Con simili premesse, è del tutto anacronistico tenere lo sguardo fisso sul passato e sezionare i nuovi lavori misurandone la distanza da siffatti, nobili modelli e anche questo Moonflowers non fa eccezione, solcando le orme impresse dal predecessore e confermando che i confini del regno hanno ormai superato le antiche colonne d’Ercole. Inutile cercare le collisioni di colori che hanno reso immortale Plague of Butterflies o i refoli funeral che hanno innervato il terzo capitolo di Songs from the North, l’ottava stazione della carriera Swallow the Sun è collocata in un territorio dove malinconia e giochi di chiaroscuri dominano un paesaggio dai contorni sfumati che ispirano più rassegnazione che disperazione, modellando un tono decisamente più elegiaco che tragico. E’ un processo che, senza arrivare alla liofilizzazione spinta di marca Anathema, abbiamo già visto all’opera negli ultimi rilasci di band come Katatonia e Paradise Lost, ma, rispetto a simili esempi peraltro di tutto rispetto sul versante qualitativo, qui rimane un’eco della consapevolezza originaria dei baratri che ci circondano, materializzati musicalmente da atmosfere in cui c’è sempre un sottofondo di inquietudine irrisolta che impedisce qualsiasi abbandono contemplativo. L’ottima notizia, rispetto al predecessore, è che si è molto assottigliata quella sorta di patina che ne avvolgeva anche i momenti migliori, trasmettendo una sensazione di “manierismo” frutto probabilmente di una ricerca di linguaggio non ancora portata a compimento. A giungere a completa maturazione è l’attitudine corale/orchestrale della band (provare per credere, nella versione limited edition, la riproposizione della tracklist per soli archi e pianoforte affidata al Trio Nox, ennesimo regalo della poliedrica creatività di Raivio) e in quest’ottica diventa del tutto comprensibile l’evoluzione del cantato di Mikko Kotamaki, sempre più a suo agio con un clean narrativo/recitato dagli esiti quasi teatrali a scapito dei momenti di furia scream o inabissamento growl, in ulteriore diradamento rispetto al passato. Otto tracce per poco più di cinquanta minuti complessivi di ascolto, Moonflowers è la solita, inesauribile miniera di episodi singolarmente riusciti ma che, pur senza avere crismi e pretese “strutturali” da concept, esaltano il proprio carico emozionale a fronte di una fruizione complessiva che consenta immersioni di lunga durata piuttosto che veloci e distratte incursioni. Le due succulente anticipazioni rilasciate dalla Century Media, del resto, lasciavano pochi dubbi sulla qualità della tracklist, tra le movenze My Dying Bride della splendida “Enemy” (forse uno dei loro brani in assoluto più immediatamente fruibili ma plastica testimonianza dei livelli di classe raggiunti dai finlandesi) e gli abbandoni decadenti di una “Woven into Sorrow”, colonna sonora ideale per autunni e crepuscoli non solo paesaggisticamente intesi. Per chi fosse alla ricerca del marchio di fabbrica, invece, ecco apparecchiata l’opener “Moonflowers Bloom in Misery”, dallo spiccato retrogusto sinfonico che rimanda a un lavoro come Emerald Forest and the Blackbird e la più muscolarmente cadenzata “Keep Your Heart Safe from Me”, dove qualche struttura imponente prova a sollevarsi su una superficie languidamente liquida increspata ulteriormente da due incantevoli assoli. L’ora del dubbio scocca con la successiva “All Hallows’ Grieve”, brano a conti fatti non fallimentare nella resa ma che imbarca un po’ troppa prevedibilità nell’insistere sul registro della ballad a doppia voce maschile/femminile (l’ospite è Cammie Gilbert, degli Oceans of Slumber), finendo per una volta abbastanza lontano dal migliori esempi del genere, conterranei Hanging Garden in testa. Al confronto, è decisamente più riuscita l’escursione in territorio Katatonia di “The Void”, titolare del ritornello più melodicamente accattivante dell’intero platter, o, ancora di più, l’eterea “The Fight of Your Life”, impreziosita da una vena acustica che disegna delicati ricami. La gran chiusura del viaggio è affidata alla caleidoscopica “This House Has No Name”, culla di generi, sensibilità e modalità espressive che certificano con dovizia di particolari il motivo per cui questi ragazzi sono già entrati di diritto nella storia del metal: strappi black, abrasioni vocali, passaggi di puro incanto, lagune melodiche, rintocchi di pianoforte, tutto combinato con una naturalezza disarmante… serve altro, per definire la grandezza di una band?
Penombre che diventano poesia, riflessi che giocano con l’oscurità rendendola compagna di viaggio piuttosto che minaccia, malinconia come arma per affrontare il dolore, Moonflowers è l’ennesimo, riuscitissimo capitolo di una storia personale che diventa paradigma collettivo per chi attraversa la vita sentendone tutto il peso e ponendosi domande sul senso di un destino che va oltre i risicati recinti individuali. Ancora una volta, luci spente e silenzio in sala doom/death, parte la meraviglia dello spettacolo Swallow the Sun.
(Century Media Records, 2021)
1. Moonflowers Bloom In Misery
2. Enemy
3. Woven into Sorrow
4. Keep Your Heart Safe from Me
5. All Hallows’ Grieve
6. The Void
7. The Fight of Your Life
8. This House Has No Name