Nel 2002 gli statunitensi Taproot giungono al secondo album, Welcome (Atlantic Records), forti dell’enorme successo del loro debutto, Gift, che era stato trainato dal singolo “Again and Again”, e di una forte risonanza mediatica dovuta all’aver fatto incazzare Fred Durst, che all’epoca aveva le mani in pasta alla Interscope. Rispetto a Gift, ancora molto deftonesiano, si segnala una maggiore sicurezza nella scrittura che, sì, segue sempre le strutture elementari e più radiofoniche del nu metal ma che regala anche qualche imprevedibilità nelle soluzioni. Nella compagine nu metal i Taproot di Welcome risultano sicuramente tra le proposte più eleganti, il portato aggressivo è sempre mitigato, non c’è machismo e il carico ormonale è tenuto sotto controllo e quando c’è da mostrare i denti lo fanno ordinatamente e senza mai essere sboccacciati.
Welcome è a tutti gli effetti un campionario di cifre nu metal, un compitino che, se da un lato non inventa nulla, dall’altro confeziona un lotto di canzoni che è necessariamente tra i momenti migliori di quel filone. C’è chi parlò dei Taproot come di un mix tra Korn ed Alice in Chains, ma qui gli arrangiamenti più curati, le melodie più mature danno modo alla band di prendere le distanze dalle proprie fonti e di intraprendere un percorso segnato da una forte personalità. I singoli che vengono scelti per lanciare l’album sono “Mine” e “Poem”, i primi due pezzi dell’album, quest’ultimo in particolare fu un enorme successo. Ma è l’intera tracklist che riesce a mantenere alta l’attenzione e allora si passa dal toccare i Tool e i Nine Inch Nails in un pezzo come “Everything”, alle reminiscenze dei Korn nei pezzi più ricchi di pathos (“Myself”) mentre altrove non è raro che si inoltrino in territori alternative e post-grunge. “Like” e “Art” sono i due migliori esempi. La prima senza enormi sussulti a dire il vero, la seconda con tanto di orchestrazione finale. Ancora, la conclusiva “Time” chiude l’album con un singulto che sa molto di System of a Down, quasi a volersi mostrare solidali con la band di Tankian, scaricata proprio da Durst dal “Family Values Tour”, a mo’ di ritorsione, perché condividevano con i Taproot la stessa etichetta.
Insomma, di stereotipi tutti quelli che volete, ma maneggiati con grazia e scioltezza per un album che è sicuramente tra i must have del nu metal.