“We are made of star stuff”. Alzi la mano chi, al cospetto del celebre aforisma di Carl Sagan che ha certificato come uomini e stelle siano sostanzialmente un’articolazione diversa della stessa materia, non abbia provato un brivido di piacere, quasi che dalla condivisione di un’origine discenda automaticamente una promessa di una significativa permanenza nelle mappe del Tempo, a caccia di almeno un frammento di immortalità capace di infrangere le leggi fisiche che ci hanno negato l’iscrizione al club dell’Infinito. Passata la romantica euforia, però, la Scienza stessa si è incaricata di dimostrare come una simile scoperta non sia necessariamente una buona notizia, soprattutto quando è apparso chiaro che il destino di un universo in irreversibile espansione è la premessa per il trionfo del freddo e del vuoto, in attesa della morte termica provocata dal massimo valore di entropia.
Sono partiti da qui, i novaresi Tethra, per riprendere un viaggio che li vede protagonisti da ormai un decennio sulle rotte doom/death, innanzitutto con la scelta di un titolo che, nel concetto di “impero”, racchiude tutta l’ineluttabilità di leggi per le quali non siamo chiamati a dare il nostro consenso. A chiarire il concetto anche sul piano visivo, peraltro, il quintetto provvede regalando una cover magnificamente evocativa, affidata al tocco visionario di quel Carmine “Korvo” Foschino che ricordiamo altrettanto volentieri nei panni dell’affrescatore di un altro recente, grande volo negli spazi planetari come quello approntato dai milanesi Esogenesi nell’omonimo album di debutto. E, come nel caso del quintetto lombardo, anche questo Empire of the Void indossa subito i panni dell’imperdibilità, rivelando una band in grande stato di grazia creativa, finalmente pronta ad occupare uno spazio significativo ben oltre gli angusti confini della scena nazionale. Non che i Tethra abbiano fin qui vivacchiato in una dimensione di trascurabile apprendistato, ma nelle prove precedenti era forse mancata la scintilla in grado di concretizzare il salto di qualità definitivo, a cominciare dall’esordio un po’ acerbo di Drown into the Sea of Life ma anche con il successivo Like Crows for the Earth, dove pure aveva indubbiamente giovato l’innesto di una componente gothic opportunamente valorizzata da un cantato capace di far rivivere i fasti di un mostro sacro del calibro di Fernando Ribeiro. Empire of the Void rappresenta, in questo, il classico esame di maturità brillantemente superato, permettendosi di moltiplicare i richiami ai giganti dei generi convocati a convegno senza mai scadere nel banale citazionismo e non consentendo mai a staffe e incudini di approdare alla ferale affermazione “sì, bravi, ma non inventano niente…”. Ecco allora che scorrere l’elenco dei potenziali (e tutti fondamentalmente innegabili) riferimenti, che si tratti dell’epicità evocativa di marca Candlemass o delle spire sinuose di scuola My Dying Bride o anche di frammenti più densamente rifiniti secondo la lezione Saturnus o Swallow the Sun, è tutt’altro che un freddo esercizio di anatomia pentagrammatica, ma rivela al contrario una straordinaria capacità di entrare in sintonia con tutti i diversi linguaggi per rielaborarli alla luce di una personalità in prepotente affermazione. Valga qui, a titolo di esempio, la coraggiosissima e assolutamente vinta sfida di portare su coordinate doom un grande classico della discografia di David Bowie come “Space Oddity”, mantenendone quasi immutate le forme ma incrementando contemporaneamente l’imponenza delle strutture, senza contare uno struggente assolo finale che materializza alla perfezione il senso della distanza non solo fisica tra il Major Tom seduto in un barattolo di latta in orbita e il Ground Control scelti come protagonisti dal Duca Bianco. L’alternanza tra delicati ricami e canoniche sfuriate death della coppia di sei corde Federico Monti/Alberto “Avenir” Coerezza è peraltro un marchio di fabbrica dell’intero platter, garantendo un impeccabile dosaggio nel rapporto tra potenza, velocità e aperture malinconiche e incrementando così la resa gothic rispetto al passato, mantenendosi comunque sempre a debita distanza dalla declinazione symphonic. L’altro grande pilastro dell’album è la prova al microfono di Clode Tethra, in ulteriore, clamorosa crescita rispetto al passato e ormai consumato navigatore dell’intero spettro vocale. Del tutto a suo agio, e si sapeva, con le spigolosità dello scream di scuola death, il vocalist sfodera un growl più sabbioso che catacombale di tutto rispetto, ma merita applausi anche nei panni dell’”interprete” puro, sia alla Nick Holmes sia quando si avventura sulle orme di Aaron Stainthorpe. Dieci tracce per quasi un’ora complessiva di ascolto, la tracklist è una collezione di episodi tutti ugualmente riusciti, al punto che sceglierne qualcuno come possibile vertice artistico rischia di fare un immeritato torto al resto di una compagnia del pari impeccabile. Volendo a tutti i costi affrontare l’ingrato compito, detto della tormentata monumentalità di “Cold Blue Nebula” e di una suite in tre parti come “Gravity” che da sola vale il proverbiale prezzo del biglietto, puntiamo sulle due tracce in cui la melodia gioca un ruolo spettacolarmente decisivo, vale a dire la conclusiva “Ison” (c’è un che di deliziosamente voluttuoso, che si aggira tra le imponenti strutture di una cattedrale doom/gothic in costruzione e i rintocchi di tastiera dell’ospite Lele Triton) e, soprattutto “A Light Year Breath”. Impreziosito dalla presenza di Gogo Melone (frontwoman greca degli Aeonian Sorrow), il brano più lungo del lotto è l’apoteosi per tutti gli amanti del gothic d’autore che preveda una voce femminile in modalità controcanto, il più possibile lontano dall’abusato cliché the beauty and the beast. Se qualcuno fosse alla ricerca di una possibile eredità dei migliori Theatre of Tragedy del periodo Sigland e senza le ombre dell’allora purtroppo al tramonto Rohonyi, qui c’è una risposta… più che credibile.
Generi in magico intreccio che immergono l’ascoltatore in atmosfere dove visioni e turbamenti si alternano in un continuo gioco di rimandi, un malinconico senso di abbandono sempre in poetico agguato anche quando sembra scoccare l’ora della tempesta, Empire of the Void è un album che, ne siamo certi, meriterà di essere ricordato anche in sede di consuntivi, al termine di questo tormentato anno domini 2020. Ci aspetta un universo vuoto, alla fine del viaggio, ma nel frattempo c’è ancora tempo per ammirare la luce delle stelle e i Tethra stavolta ne hanno davvero accesa una, luminosissima.
(Black Lion Records, 2020)
1. Cosmogenesis
2. Cold Blue Nebula
3. Gravity Pt. I Ascension
4. Gravity Pt. II Aeons Adrift
5. Gravity Pt. III Ultimo Baluardo
6. Empire of the Void
7. Space Oddity
8. A Light Year Breath
9. Dying Signal
10. Ison