Jason Köhnen ha un curriculum di tutto rispetto. Dagli inizi coi Celestial Season e i Bong-Ra, è passato ai Mansur, per arrivare poi alla creazione di entità quali The Kilimanjaro Darkjazz Ensemble e The Mount Fuji Doomjazz Corporation. Facile quindi attendersi che il suo nuovo progetto, The Lovecraft Sextet, continui a spazzar via le certezze di chi pensava di avergli visto fare tutto e il contrario di tutto. Dopo aver coniato il termine dark jazz nel lontano 1999, ha intrapreso un lungo viaggio attraverso un genere, ripreso poi da moltissimi, fatto di atto di sperimentazioni sonore stratificate su un tappeto (e un approccio) jazzistico. Con The Lovecraft Sextet, Köhnen cerca di aprire quanti più scenari possibili in ambito dark jazz andando a cercare (e a trovare) terreni fertili, laddove altri vedono solo sterpaglie incapaci di dare alla luce alcunché. Ogni uscita di TLS è quindi a suo modo da inquadrare come una sorpresa, una diversa accezione del verbo, riconducibile però al trademark originario del progetto. Il tutto con l’idea intrigante di riuscire a creare un qualcosa che sia al tempo stesso non solo musica fine a se stessa ma anche multimedialità.
In questo Black†White, il Nostro ha scelto di fare praticamente tutto da solo. Unico collaboratore ammesso, oltre a James Plotkin (OLD) al mastering, il sassofonista Colin Webster. L’EP, che esce nella sola veste in vinile 7″, racconta un universo cangiante, contaminato coi lavori dei pionieri del free jazz Albert Ayler e Pharoah Sanders, grazie al lavoro incredibile di Webster. Ma non solo, c’è molto dell’approccio isterico di John Zorn del binomio Naked City/Painkiller. Lo sottolinea lo stesso Köhnen, nelle note allegate al disco: “Per me c’è molta connessione tra il free jazz e il black metal: il caos, la velocità e il rumore. Sento anche una chiara relazione musicale tra il free jazz, il black metal e il primo grindcore – sono tutti suoni grezzi e primitivi”.
A un primo lato più intimamente connesso con il dark jazz si contrappone un secondo in cui l’elettronica la fa da padrone, con il risultato di avere due lati “diversi” ma non distanti. Due parti della stessa e precisa identità sonora. Due estremi, uno negativo dell’altro, ma entrambi necessari per capire appieno il disegno di insieme. Dieci minuti in cui troviamo tutto e il contrario di tutto. Dieci minuti di musica “mutante”. Solitamente avremmo chiuso dicendo che con due soli brani è quasi impossibile fornire un parere. Ma non è questo il caso. Abbiamo materiale a sufficienza per capire dove stiamo andando e chi ci sta accompagnando; l’unico dubbio che resta è quello relativo alla possibilità di tornare indietro.
(Debemur Morti Productions, 2023)
1. Black
2. White