I The Marigold sono un piccolo nome di culto, attivi sin dal 1998 e capitanati da Marco Campitelli che nonostante i diversi cambi di formazione è sempre rimasto come figura fissa. Dal debutto, uscito nel 2004, ne è passata di acqua sotto i ponti, ripagando il gruppo con più che buoni riconoscimenti di critica e pubblico oltre che a collaborazioni piuttosto importanti, nell’ambito della produzione, come Amaury Cambuzat degli Ulan Bator/Faust o, negli ultimi anni, Toshi Kasai, già attivo anche con i Melvins (Amaury continuerà comunque la partnership con il trio). Questo nuovo album si intitola Apostate e vede nuove collaborazioni nelle figure di Adam Harding (Dumb Numbers, Kidbug con Dale Crover e Thor degli Swans) alla chitarra e anche lo stesso Toshi alla chitarra, synth e strumenti vari. Dal lato sonoro questa nuova tappa discografica dei The Marigold è forse la più rocciosa e non nasconde una decisa direzione verso lo sludge/noise combinando al meglio anche le idee sonore del passato.
Otto tracce per otto mazzate sui denti, e la recensione potrebbe tranquillamente finire qui, ma è giusto anche fornire qualche dettaglio in più. Ogni strumento ha i suoi giusti spazi e si intreccia perfettamente agli altri in modo tale che non ci siano spazi lasciati vuoti. Chiara espressione di tali concetti risiede nei tocchi strumentali che pervadono le tracce, come le ritmiche di batteria in “Exorcixm Charm” con i fumi soporiferi creati dalla distorsione della sei corde o i piatti stordenti dell’arrembante stoner di “Lay Down”, dove fa bella presenza un basso grassissimo che fa da contrasto al magma psichedelico. Proprio il basso di Stefano merita un approfondimento, perché fa da ponte fra le bordate di batteria e la follia della chitarra, come ad esempio nel groove micidiale di “The Pledge” con le sue vocals schizzate o nel muro di suono a nome “Sludge Machine”, pieno di cori visionari e percussioni tribali che riportano alla mente certe intuizioni dei Tool. Oltre a far da collante ci sono anche episodi dove le linee di basso sono una guida, si pensi ad esempio alla devastante “My Own Apostate” pregna di oscurità e tragedia nella distorsione e nelle chitarre asciutte. I brani hanno il gran pregio di essere quadrati e concisi anche quando raggiungono un minutaggio elevato. Non si ha mai la sensazione di noia o pesantezza e lì entrano in gioco le capacità tecniche e di scrittura della band, che riesce a far risultare semplici anche le tracce più complesse come la magnifica e settantiana “Loser in Lines”, in bilico fra groove impetuosi di basso, che si insinua come un parassita nelle trame della chitarra di Marco impegnato in esplosioni spaziali e riff rocciosi. A bilanciare il tutto ci pensano brani più canonici a partire dai deliri sludge di “Mono Lith” fino a giungere al mood velenoso di “Goat, Goth, Gone” intrisa nella psichedelia che flirta con delle esplosive grattate soniche.
Sebbene non siano presenti particolari innovazioni di sorta il disco scorre benissimo e si lascia ascoltare con molto piacere, facendo intravedere un buon grado di maturità, anche se sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più da musicisti attivi da così tanti anni che hanno, forse, preferito non rischiare più di tanto ma, sia chiaro, questo è cercare il pelo nell’uovo dato che dischi di qualità sono merce rara al giorno d’oggi. Disco semplicemente bello, potente, dinamico e con la giusta dose di intraprendenza che merita di essere ascoltato e riascoltato!
(Forbidden Place Records, Trepanation Records , Sound Effect Records, Coffin and Bolt Records, Golden Robot Records, 2021)
1. Exorcism Charm
2. Goat, Goth, Gone
3. The Pledge
4. Lay Down
5. Sludge Machine
6. Mono Lith
7. Loser In Lines
8. My Own Apostate