Un grande album d’esordio, una vocalist dal timbro magneticamente accattivante e un componente destinato a transitare, sia pur brevemente, nella line-up di una delle grandi promesse doom della terra d’Albione, cioè quei Warning di cui peraltro da troppi anni si attendono cenni di vita dopo il capolavoro Watching from a Distance…
Era il 2006 e dalla periferia di Londra un terzetto dalle grandi speranze e potenzialità illuminava a giorno la scena non solo d’Oltremanica, rilasciando un lavoro finito meritatamente sui radar dei controllori di volo perennemente alla ricerca di traiettorie sabbathiane (anche, eventualmente, nella declinazione “essenziale” di marca Saint Vitus) contaminate da un vago afflato decadente dallo spiccato retrogusto mydyingbridiano. Purtroppo però, dopo la scossa provocata da quel Drawing Down the Sun, la carriera dei The River non ha più fatto registrare movimenti di pari impatto tellurico e la tormentata gestazione del pur tutt’altro che disprezzabile successore, In Situ, culminata con la dipartita della vocalist Vicky Walters, è stata il prodromo di un decennale periodo di silenzio interrotto solo da un EP del 2013, En No Ozunu, non certamente annoverabile nella categoria “imperdibili”, stante la sostanziale riproposizione in chiave strumentale di brani già apparsi negli album precedenti. E’ evidente che, salvo immaginare un drastico cambio di prospettive artistiche, il problema principale per la band fosse quello di trovare una nuova interprete vocale femminile in grado di ripetere l’incanto del debutto e il lavoro di ricerca si è finalmente concluso con la salita a bordo di Jenny Newton, a cui è affidato il compito di guidare una ripartenza con opportunità almeno pari alle incognite inevitabilmente figlie di una così prolungata assenza dalle scene. Chi si aspettasse però un’eventuale, automatica sovrapponibilità della prova della nuova cantante agli stilemi della Walters rischierebbe di restare discretamente deluso, perché con questo Vessels into White Tides i The River scelgono di solcare rotte parzialmente differenti rispetto al passato, rinunciando in parte all’incontro tra la solennità delle strutture e i riflessi ora languidi, più spesso inquieti del cantato che avevano caratterizzato il debutto a favore di un’andatura decisamente più compassata, privilegiando approdi ipnotici appena increspati da un velo di inquietudine e malinconico abbandono. Con simili premesse, non stupisce che il lavoro finisca per essere fortemente sbilanciato sul versante più etereo del genere, nella duplice veste del doom esoterico o di quello cantautorale a buon tasso di potabilità soprattutto per chi non si abbeveri in via esclusiva alle sacre fonti muscolari di conio settanta/ottantiano. Ecco allora da un lato le ascendenze Jex Thoth o Sera Timms (e di tutta la schiera di sacerdotesse dedite alle celebrazioni di riti iniziatici) e dall’altro una grande capacità di aggirarsi in territori in cui la magniloquenza è tassativamente bandita fin quasi alle soglie del minimalismo (il nome di Carline Van Roos e dei suoi Lethian Dreams può essere speso come paragone tutt’altro che azzardato) e in entrambi i casi la band sfodera un’invidiabile attitudine melodica in grado di regalare squarci di raffinata delicatezza senza mai annacquare eccessivamente la proposta verso zuccherosi esiti easy listening. Luci soffuse e atmosfere nebbiosamente avvolgenti completano prevedibilmente il quadro e fin dalle prime note dell’opener “Vessels” la sensazione è quella di essere accompagnati in una terra di mezzo in cui la materia sfuma lentamente in uno stato di sospensione permanente che esalta la dimensione onirica, seguendo con gran profitto l’immortale lezione impartita a Salt Lake City dai purtroppo recentemente dissolti Subrosa. Certo, ai Nostri manca l’arma letale dei violini e il timbro di lady Newton è decisamente meno multicolore di quello che ha reso immediatamente riconoscibile Rebecca Vernon, ma a conti fatti anche una soluzione più cantilenante e nel complesso eterea centra alla perfezione l’obiettivo di allentare le briglie della percezione del reale, proiettandoci subito in mondi in cui fluttuare in una sorta di poetico dormiveglia. Rispetto al percorso incantevolmente netto della prima traccia, qualche nube in più si addensa sulla successiva “Into White”, ma, se è pur vero che l’avvio si attarda su un canovaccio doom un po’ troppo scolastico su cui il cantato fatica a imporre ricami significativi, un opportuno stop and go a metà viaggio prepara un finale che recupera una buona carica emozionale per arrivare tutt’altro che stremati al termine degli oggettivamente impegnativi quindici minuti d’ascolto. Tocca alle movenze tenui e flautate di “Open” aprire il capitolo cantautorale dei The River (qui una scelta acustica dai vaghi riflessi folk/celtici si dimostra vincente nella sua semplicità), ulteriormente approfondito in una chiave sorprendentemente quasi indie in un brano come “Passing”, forse localizzabile a fatica in una prospettiva metal in senso stretto ma comunque apprezzabile per il coraggio di azzardare un’escursione drone prima di una chiusura dal riuscito sapore post. Non meno spiazzante, la strumentale “Tides” fa calare il sipario in un gioco di colori sempre più delicatamente sfumati, mentre la forma-canzone cede il passo a una delicatissima melodia che si fa ninna nanna rassicurante e accompagna i viandanti alla fine del viaggio… qualunque sia la loro meta.
Raffinato lavoro di cesello che esalta i riflessi in un genere abituato all’edificazione di monoliti che catturino la luce, colonna sonora di un sogno che, senza dimenticarsele del tutto, lascia ansie e turbamenti sullo sfondo, appena percettibili sulla linea dell’orizzonte, Vessels into White Tides è un album che non può mancare nella discografia di chi ami la navigazione in tutti gli affluenti del grande fiume doom. Ci sono voluti dieci anni ma con un lavoro così valeva senz’altro la pena, aspettare il ritorno dei The River.
(Nine Records, 2019)
1. Vessels
2. Into White
3. Open
4. Passing
5. Tides