Cambiamenti, metamorfosi, mutazioni, trasformazioni, ma senza mai rinnegare davvero la propria natura, anzi, rivendicando orgogliosamente radici e origini. Così, al netto degli inevitabili rischi che si corrono cercando di distillare in poche parole la complessità che accompagna qualsivoglia percorso, potremmo sintetizzare la traiettoria artistica del mastermind di Aquisgrana Alexander von Meilenwald, che ha ormai varcato la soglia del terzo lustro di attività in solitaria dopo la dipartita dal progetto Nagelfar brandendo le insegne The Ruins of Beverast.
Reduce dai fasti di un lavoro magnifico del calibro di Exuvia, assurto fin dal titolo al ruolo di autentico manifesto delle capacità dell’autore di rinnovare la materia black e doom primigenia spingendola ad approdi non convenzionali che hanno portato molti a spendere l’aggettivo “sciamanico” per definirne gli esiti, von Meilenwald si ripresenta sulle scene confermando le scelte che avevano impreziosito il predecessore e spingendosi ancora oltre sul versante della qualità, al punto da candidare autorevolmente questo The Thule Grimoires al ruolo di best of di un’intera carriera. Anche stavolta il titolo indossa subito i panni di apripista rispetto ai contenuti, con il suo riferimento da un lato alle gelide, leggendarie terre del Nord avvolte da un alone di mistero e dall’altro ai libri esoterici che contenevano le formule per evocare demoni e spiriti, preannunciando dunque una navigazione impegnativa ma allo stesso tempo unica per profondità di ispirazione e piena corrispondenza tra il traguardo prefissato e i mezzi dispiegati per raggiungerlo. Con queste premesse, non stupisce che il punto di forza del platter siano innanzitutto le atmosfere, che spingono ancora più avanti il limite della densità già tracciato dai predecessori a partire da quel Blood Vaults che aveva segnato la rottura decisiva con l’ortodossia black, ma a stupire in realtà è l’intero impianto di un lavoro ormai di problematica collocazione sulle metal mappe, almeno per chi è abituato a considerare i confini tra i generi come tagli netti che configurino vere e proprie soluzioni di continuità. C’è, invece, una autentica miniera a disposizione di chi ami avventurarsi in territori fecondati dalla contaminazione, a partire dalla componente doom già da tempo tratto distintivo dei The Ruins of Beverast (e qui declinata con un riuscitissimo taglio epico/drammatico), passando per suggestioni gothic dove rivivono monumenti del recente passato (Type O’ Negative e Fields of the Nephilim su tutti) e richiami a tradizioni con ancora più cerchi nel tronco (splendidi gli echi Joy Division e, in generale, tutto ciò che rimanda al trapasso dal post punk alla new wave, nel crepuscolo degli anni Settanta), senza dimenticare un respiro melodico che si affaccia a più riprese in modalità affluente tutt’altro che meramente decorativo dell’alveo principale e, addirittura, qualche spolverata drone e post che rende il piatto davvero pantagruelicamente apparecchiato. Detto dell’ennesima conferma dell’impeccabilità della prova di von Meilenwald nei panni di polistrumentista (a cui si affianca proficuamente, come in Exuvia, il contributo di Michael Zech in libera uscita dalla casa madre Secrets of the Moon), vanno sottolineati e lodati i suoi progressi dietro al microfono, dove sfodera un cantato che, senza perdere i contatti con le spigolose radici scream degli esordi, si è progressivamente conquistato sul campo ragguardevoli titoli di merito sia nei cimenti in growl che nelle escursioni in clean, al punto da non sfigurare per nulla finanche quando azzarda ascese dall’altissimo coefficiente di difficoltà sui sentieri segnati dalle nobili orme di Peter Steele o Carl McCoy. Ed è proprio il comparto vocale la chiave di volta che riduce ad unità e indirizza tutte le spinte potenzialmente centrifughe in campo, rendendo del tutto naturali e lineari i cambi di ritmo e fondale messi a punto nel laboratorio di Aquisgrana, a cominciare da un’opener come “Ropes into Eden” che, aperta e chiusa da una furiosa tempesta black, disegna un lungo corpo centrale segnato da linee narrative cerimoniali a suggerire possibili percorsi iniziatici. Al confronto, la successiva “The Tundra Shines” brilla indubbiamente meno per potenza evocativa, ma ha il grande merito di aprire il capitolo delle sperimentazioni (qui, a rompere il dominio di uno scream più sabbioso che appuntito provvede un cantilenato voluttuosamente decadente), subito arricchito dalla perla anfibia della compagnia, “Kromlec’h Knell”, vertice delle gothic propensioni di marca ottantiana e delle devozioni Type O’ Negative. Da questo momento in poi, se possibile, il platter imbarca ulteriore qualità, a partire dall’incedere mistico/cadenzato di “Mammothpolis”, che si scioglie nel finale in una sorta di declamazione da rito collettivo, e dalla multidirezionale “Anchoress in Furs”, introdotta da una linea vocale femminile mediorientaleggiante e sviluppata su solidissime coordinate doom da cui si dipanano incursioni in tutti i territori circostanti, con citazione particolare per i passaggi innervati da un retrogusto tribal di stampo neurosisiano. Detto di una “Polar Hiss Hysteria” che salda abbondantemente il debito fin qui accumulato con potenza e velocità (magnifico il riff che piomba ciclicamente sulla scena a interrompere il martellante lavoro di sei corde e pelli, prima di sfociare in una chiusura dove la melodia indossa panni ipnotici), il gran finale è affidato alla chilometrica “Deserts To Bind and Defeat”, vero e proprio distillato aureo di un’intera carriera, più che del solo album, con la sua articolazione in “stanze” tutte individualmente definite e tutte funzionali alla creazione di un insieme infinitamente superiore alla somma delle sue parti.
Un monolite da cui filtrano inattesi raggi di luce che insidiano la nozione canonica di un nero geneticamente condannato all’assenza di sfumature, atmosfere iniettate di vapori malsani o attraversate da lampi sinistri che si diradano improvvisamente aprendo inattesi squarci lirici, The Thule Grimoires è un album che scatta subito ai blocchi di partenza di questo 2021 con la più che fondata certezza di assicurarsi un posto al sole nei consuntivi di fine anno. Sei full length, sei centri pieni confermando in ogni episodio un’innata capacità di rinnovarsi mantenendo la spinta propulsiva degli esordi, i The Ruins of Beverast ormai sono una garanzia, per chi crede che difficoltà e profondità siano i requisiti fondamentali per aprire a un metal album la strada dell’imprescindibilità.
(Ván Records, 2021)
1. Ropes into Eden
2. The Tundra Shines
3. Kromlec’h Knell
4. Mammothpolis
5. Anchoress in Furs
6. Polar Hiss Hysteria
7. Deserts To Bind and Defeat