FRANCESCO “CICCIO” PALADINO
Parliamoci chiaro, per chi vive la musica come la viviamo noi è un’impresa eroica selezionare i migliori dieci album di un periodo enorme come dieci anni. E oltretutto non vedo con quale autorità dovremmo farlo. Ma è proprio con quest’idea che è nata questa serie di articoli: nessuna autorità, nessuna classifica, nessuna pretesa, solo una scusa per parlare di dischi che abbiamo apprezzato, che in qualche modo ci hanno accompagnato e segnato. Che poi è anche un modo per guardarsi indietro, tirare le somme, vedere cosa è cambiato, cosa è invecchiato male e cosa abbiamo scoperto troppo tardi – un po’ un modo per analizzare la vita tutta, no?
D’altronde, per chi vive la musica come la viviamo noi, è impossibile scindere un periodo, un ricordo da ciò che ascoltavamo in quel momento: c’è un mare di roba da ascoltare lì fuori, e se preferisci dei dischi ad altri stai operando una scelta molto significativa, che non può essere casuale. Scegli qualcosa che ti rappresenti e che finisce per entrare a far parte della tua storia personale.
Nel mio caso, dato che questi dieci anni sono stati quelli della mia formazione personale e musicale – nel 2009 avevo tredici anni e mi avvicinavo a certa musica, giusto per dare una coordinata – è ancora più arduo guardarsi indietro. Anche perché all’inizio del decennio ero una persona, a metà un’altra, oggi un’altra ancora. E, per forza di cose, c’era roba improbabile fra i miei ascolti ai tempi del liceo, specialmente i primi anni. Ma quelli successivi, quelli in cui iniziavo a trovare una mia strada, sono indimenticabili e sono tributati da un paio di scelte. I dischi di metà decennio sono invece quelli della formazione definitiva, dello sventurato passaggio all’università, ma anche dell’ingresso in GOTR, una manna dal cielo per la mia crescita come ascoltatore, e di conseguenza come musicista, e come persona. Gli ultimi anni rappresentano quello che potrei definire un ascolto maturo, senz’altro più libero e cosciente, ma anche più intricato e problematico. Un po’ come questa fase della vita.
E quindi eccole qua le mie dieci preferenze, dettate assolutamente dal cuore e non dalla testa. Almeno la metà è venuta fuori istintivamente, in pochi secondi. Per forza di cose ho dovuto lasciare fuori dischi per me, e per molti, decisamente importanti – di Alcest, Solstafir, OM, Deftones, Kvelertak e altri – e sono rimaste fuori anche alcune delle band per me fondamentali per l’esistenza (Mastodon, Gojira) in quanto i loro album che prediligo sono stati pubblicati nella decade precedente; nonché uno dei miei generi preferiti, il post-rock, perché forse ne ho ascoltato così tanto da non riuscire più a cavare un ragno dal buco. E resta fuori anche qualche disco inerente ad altri contesti musicali, che in questa istanza ho messo da parte per mantenere una linea più adeguata possibile a Grind On The Road.
The Ocean – Heliocentric/Anthropocentric (2010)
Con un atto di furberia prendo due dischi e li metto al posto di uno. Più un concept in due parti che un effettivo doppio album, la coppia Heliocentric/Anthropocentric è stata la folgorazione sulla via di Damasco che mi ha aperto le porte di tutto ciò che contiene il magico suffisso post-. Scoperti qualche anno dopo l’uscita, hanno invaso i miei ascolti quotidiani durante i lunghissimi viaggi in treno per andare a scuola e proprio non riuscivo ad ascoltare altro, ne parlavo a tutti, li citavo nei compiti in classe, roba da ossessi. Negli anni però sono rimasti lì a ricordarmi esattamente quale sia il mio modo di intendere la musica.
Post-metal, sludge, prog, una scrittura sempre ficcante, vocals incredibili, testi ricercati che riprendono Dostoevskij e Darwin, Orwell e Lord Byron, performance dei singoli musicisti veramente sopra la media: questa doppia uscita si configura come una pietra miliare del metal moderno, spesso offuscata da quell’altro capolavoro che è Pelagial, ma non meno importante. Anzi.
Converge – All We Love We Leave Behind (2012)
Mettere da parte tutto ciò che amiamo per perseguire un obbiettivo. Un fine altro e alto: la musica, l’arte. Sfido chiunque lavori, o comunque si muova in questo mondo a non provare un brivido lungo la schiena per una situazione che è ben più comune di quello che sembra. Condivisa persino dal coriaceo Jacob Bannon, che da questa lacerazione genera All We Love We Live Behind.
Con questo disco i Converge sono passati ad essere, per il sottoscritto, da perfetti sconosciuti a band di primissima importanza nella vita. Un disco che a diciott’anni (anche qui scoperta tardiva) ti prende e ti spiaccica su un muro di malessere straripante, ma su cui torni costantemente per rimettere dei paletti, ricordarti di cosa hai bisogno. Un po’ come per tutta la discografia dei Converge, AWLWLB è la colonna sonora di quando incontro un imbecille e non so come affrontarlo, di ogni volta in cui ho le spalle al muro e bisogno di ristabilire delle priorità, non perdere la bussola. Il modo in cui i quattro riescono a condensare tutta questa rabbia in una forma così alta è un esempio di energia controllata che fa paura. E ogni traccia è una ragione a sé per cui il disco si trova in questa lista: ci sono le mazzate senza posa di “Trespasses” e “Sadness Comes Home”, la disperazione di “Aimless Arrow”, una “No Light Escapes” che è una lezione di brevità e concisione, persino la ballad “Coral Blue” e poi la titletrack, che è semplicemente IL brano, quello che tutti vorremmo scrivere.
Marnero – Il Sopravvissuto (2014)
Il bello di scoprire nuova musica ai tempi dell’internet è che spesso accade in maniera del tutto casuale. Proprio grazie ad un post su Facebook di Cris ho conosciuto Il Sopravvissuto dei Marnero ed è stato colpo di fulmine. Difficilmente negli anni precedenti e successivi ho ascoltato un disco italiano così denso di significati, scritto in maniera così ficcante, iconica, piena di strati e costruzioni ma allo stesso modo diretta, in cui non è per niente difficile riconoscersi. Ma l’abilità di scrittura dei Marnero non si limita alla sfera lirica, e spesso tendiamo a considerare poco questo aspetto della band, perché il tessuto sonoro, forse svantaggiato da una produzione non del tutto cristallina, è in realtà elaborato, personalissimo, indistricabile dai testi e vero valore aggiunto. Forse non sono riusciti a ripetersi, sebbene gli album successivi siano di indubbio valore. Per me Il Sopravvissuto, specie se scoperto, macinato e assorbito a una certa età, è un bignami di come prendere la vita, che sì, è il nemico, ma è lì e in qualche modo va affrontata, nonostante tutto.
Pallbearer – Foundations of Burden (2014)
I due album successivi li ho sempre accostati per un paio di ragioni: sono due perle che brillano in un mare magnum di uscite inutili, due dischi che hanno fissato dei nuovi standard un po’ per tutti, e per me rappresentano la vetta artistica, finora, di due band le cui uscite precedenti sono ottime e le successive niente di eccezionale. E’ il caso di Foundations of Burden dei Pallbearer, ad esempio, che non esiterei a considerare fra i migliori album doom metal di tutti i tempi. C’è del profondo genio nello stile della band, una quantità impressionante di buone idee che svoltano del tutto le sorti di un brano, specialmente per quanto riguarda le voci e le chitarre – il giro di “Worlds Apart”, ma che roba è, dai? – e soprattutto un’atmosfera che è un biglietto di sola andata per l’altro mondo. Monumentale e imprescindibile.
Elder – Lore (2015)
Nulla di sentimentale stavolta, e anzi mi sembrava il caso di tributare un genere a cui sono molto legato nonostante non sia roba per anime tramontate. Lore è semplicemente, a mio avviso, il modo ideale in cui lo stoner possa essere concepito e suonato: con tutti i suoi ghirigori, le sue cavalcate desertiche, i brani lunghi e le sue trame complicatissime è allo stesso tempo diretto, memorabile. Mi è rimasto impresso dal primo momento e da allora non se n’è più andato dai miei ascolti. Come Foundations Of Burden è per me uno spartiacque: se un album stoner è molto meno ispirato di così allora vado oltre, senza troppi problemi.
Mgla – Exercises In Futility (2015)
Ho provato in ogni modo a tenerlo fuori. Dai è banale, dai lo metteranno tutti, dai magari c’è dell’altro. E invece ci sono cascato. Non devo essere di certo io a ricordare perché si parla tuttora di Exercises In Futility come di vero classico moderno, forse tra i pochi del black metal a poter entrare in ogni classifica, in ogni collezione, da qualsiasi punto di vista si affronti la cosa, unendo vecchio e nuovo corso in maniera esemplare.
E’ anche vero che non c’è proprio qualcosa di storto qui, e anzi è proprio uno stile che ha fatto scuola. Ma come gli originali c’è ben poco: nessuno come i Mgla è capace di tessere questo riffing ipnotico, a un tempo aggressivo e desolante, in maniera così lucida e scorrevole. E nessuno è capace di accostare ciò a dei testi che fanno un male cane per quanto sono umani, nonché realizzati con una perizia linguistica e comunicativa di cui davvero c’è un gran bisogno lì fuori. E, mi si passi il commento tecnico, nessuno suona come Darkside. Ma proprio nessuno.
Sunpocrisy – Eyegasm! Hallelujah! (2015)
C’è un ricordo del tutto personale legato ad Eyegasm! Hallelujah!, e riguarda il mio primo – e finora, purtroppo, unico – soggiorno prolungato all’estero. Il secondo disco dei Sunpocrisy è infatti quello che ho deciso di ascoltare mentre mi recavo, a piedi, in mezzo a un tempaccio tipicamente britannico, a prendere i miei genitori all’aeroporto, a sorpresa, quando sono venuti a trovarmi. Un mese dopo l’avrei scelto, senza rifletterci più di tanto, quando sarei andato a prendere Liliana, la mia ragazza, alla fermata dell’autobus che la stava portando in città per passare insieme uno dei mesi più belli della mia vita. Ecco, per me Eyegasm! Hallelujah! è rivedere, dopo molto tempo, una persona a cui vuoi bene e che ti mancava. Ed è, contestualmente, il disco che userei per spiegare perché il post-metal è fra i generi che amo di più. Lo preferirei anche ad album ben più blasonati. Semplicemente perché è un disco epocale.
Katatonia – The Fall Of Hearts (2016)
Al medesimo soggiorno è legato pure The Fall Of Hearts. Ogni tanto me la vivo anche positivamente eh, non che voglia farmi per forza del male, però il disco era appena uscito e si adattava molto bene a una Cardiff grigia ma piena di vita, lontana ma vicina, povera di qualcosa e ricca d’altro. Le stesse contraddizioni vivono in un album dall’andamento multiforme, costruito sulla solita malinconia da pomeriggio passato a fissare una finestra appannata, ma arricchito da una marea di suggestioni provenienti da mondi diversi, attimi di respiro necessario. Non che i Katatonia abbiano mai fallito mezzo passo, ma in questo caso dimostrano senza alcun freno il proprio status di compositori di primissimo ordine, sperimentando con ritmiche coraggiose, arrangiamenti orchestrali, melodie esotiche, momenti ai limiti del pop e, finalmente, bordate metalliche di tutto rispetto. Forse infine esagerano e sì, c’è qualche brano non proprio memorabile e ci si perde nei meandri delle elucubrazioni di Anders Nyström. Ma bastano i primi cinque pezzi, dai brividi di “Takeover” al groove di “Sanction”, tacendo di una “Old Hearts Fall” per cui una manciata di parole non sarebbero sufficienti, per delineare quello che è a tutti gli effetti un capolavoro. E, come detto tempo fa, la voce di Jonas Renkse sarebbe capace anche di sedare un conflitto armato.
Viscera/// – 3: Release Yourself Through Desperate Rituals (2017)
Conoscevo già i Viscera/// e li consideravo una band valida ma tutto sommato nella media. Con il singolo “Uber-Massive Melancholia” il parere non muta, ma resto incuriosito e mi fiondo su 3: Release Yourself Through Desperate Rituals al momento dell’uscita. Al ritornello di “In The Cut” è diventato il mio disco dell’anno.
La folgorazione è stata istantanea e incontrovertibile: a partire dall’iconica copertina i Viscera/// hanno un modo così personale e sincero di porsi, nella loro estetica come nella loro musica, che è impossibile restarne indifferenti. 3: Release… è una bomba ad orologeria di nichilismo, black e post-metal, self-warfare, psych, genocidi e hardcore. Ed è da più di due anni che non riesco a smettere di ascoltarlo.
Tra l’altro è stato il primo disco ordinato insieme a Santo, il primo di una lunghissima serie di ordini periodici che continua tutt’ora e probabilmente ci ridurrà sul lastrico. A fine 2017 siamo andati a vederli al GOTR Fest IX, che è stata la prima occasione per conoscere di persona buona parte della redazione di Grind On The Road, oltre che una gran bella esperienza.
Stormo – Ere (2018)
Anche Ere è legato ad esperienze del tutto personali, e d’altronde non potrebbe che essere così se parliamo degli Stormo. L’album è uscito proprio nel periodo in cui a Catania io e altri fulminati – di cui ben tre presenti in questa redazione – stavamo inventando quell’esperienza bellissima che è Tifone Crew. Ere è stata, quindi, la colonna sonora di tutti i viaggi in macchina con la già menzionata Liliana per recarci in città per le riunioni settimanali. Che poi è una cosa che facciamo tuttora, spesso col medesimo album, però i ricordi di quei primissimi passi, di quel fermento, anche di quelle ingenuità restano indelebili.
A fine anno gli Stormo hanno anche presentato il disco da noi ed è stato meraviglioso. Perché meraviglioso è Ere, una coltellata fortissima al cuore (o, meglio, una lancia che si avvicina alla gola), album di un’intensità spaventosa, con parole così preziose che non sai se gridartelo addosso o nasconderlo in un cassetto appartato. Scelgo Ere perché più maturo e strutturato di Sospesi nel vuoto…, che comunque avrebbe potuto finire in questa lista senza problemi, e perché il nuovo Finis Terrae è una storia un po’ diversa, anche se altrettanto bella. Per quanto mi riguarda è una pagina fondamentale dell’underground italiano, da parte di una band che ne rappresenta la vera punta di diamante.