Alla fine dei conti credo che questo sia un compito ingrato.
Tra le regole non scritte delle recensioni vi è un comandamento: “Scrivi le recensioni in terza persona singolare”. Oggi no, non lo farò. Non è facile scrivervi di un lavoro atteso da lungo tempo, complesso e dalle molteplici sfaccettature. La situazione è notevolmente complicata dal fatto che ormai il web è pieno di pareri più o meno autorevoli sul disco in questione. Io non capisco come sia possibile che il giorno dopo l’uscita di Fear Inoculum fossero già disponibili recensioni scritte, orali, videorecensioni, giudizi apocalittici. Alcuni addirittura hanno azzardato una recensione il giorno prima dell’uscita del disco, giusto per il gusto di poter dire “sono arrivato prima io”.
Questo mi pone dinanzi a un dilemma mica da poco: cosa potrei mai dire io che gli altri non abbiano già detto? Citiamo giusto qualche esempio: Maynard non canta, Maynard canta, Adam è assente, Adam è il protagonista assoluto del disco, non esistono elementi di innovazione e i Tool hanno rimescolato semplicemente tutto, i Tool si sono rinnovati e hanno nuovamente rivoluzionato il loro essere, alcune parti sono riciclate, le stesse parti sono in realtà diverse, certe cose sembrano fatte di fretta, le stesse cose sono troppo cervellotiche e ponderate, le divinità astrali sono dalla loro, le divinità astrali li hanno abbandonati da tempo, etc etc etc.
Data la situazione ho quindi deciso di raccontarvi una storia, non solo una recensione. Questa è la storia di come i Tool mi hanno cambiato la vita e di come interpreto questo disco alla luce di ciò. Spero di non tediarvi e di non indignare troppo i puristi delle recensioni online. Lo scopo di oggi non è quello di farvi leggere la mia autobiografia, non abbiate timore. Però mi piacerebbe farvi capire che cosa implica per me dover parlare e scrivere di Tool. Non è facile, ci sono talmente tanti avvenimenti collegati a essi che parlare solo di come abbiano influito all’inizio dell’età semi-adulta della mia vita è quasi restrittivo. Ma reputo che sia doveroso spenderci del tempo, mi piacerebbe cercare di farvi capire cosa succede nella mia psiche ogni qual volta che si parla di Tool.
Avevo 17 anni, sapete, quell’età un po’ particolare in cui ancora si pensa di poter fare di tutto nella vita e di riuscire a realizzare i propri sogni. Era l’epoca delle prime chat online, delle promozioni dei 100 sms gratis e dei primi forum, perlopiù videogiochi e musica ovviamente. Prima di allora ho sempre cercato di avere un rapporto particolare con la musica: ricordo benissimo un me stesso preadolescente che registrava decine di audiocassette direttamente dall’altoparlante della tv sintonizzata 20/24h su canali come TMC2 o Videomusic. D’altronde se non si frequentavano i giri giusti quello era l’unico modo per poter ascoltare qualcosa senza dover aspettare che il video che mi piaceva ricapitasse in rotazione, soprattutto in una scena musicale particolarmente difficile e estremamente limitata come quella di Reggio Calabria. A proposito, mi sento di dovere almeno una statua d’oro ai miei genitori per milioni di motivi, ma anche perché non hanno mai battuto ciglio sulle cassette che forzavo loro ad ascoltare in macchina. Ma un po’ tutto questo è anche colpa/merito loro, d’altronde fin dalla tenera età ascoltavo le loro cassette nell’autoradio. Le mie erano compilation ignobili ovviamente, tutte chiamate Tmc2 – vol.X o cose così, in cui i Backstreet Boys si mescolavano a “Antichrist Superstar” o i Depeche Mode condividevano la stessa sorte dei Blink 182. Col senno di poi quelle dei miei genitori mi appaiono molto meno terribili di quel che mi sembravano all’epoca, quindi il karma qui ha un po’ toppato.
L’era del peer-to-peer ha cambiato tutto. I modem 56k che se sforavi di un minuto dovevi pagare l’ora in più, e dovevi stare attento a scaricare quelle canzoni di un disco poco per volta; la frustrazione di non trovare un disco ormai dimenticato di una band semisconosciuta perché non c’erano abbastanza seeds; i consigli improbabili su gruppi improbabili che venivano dalle prime trasmissioni teenage-oriented di MtV e dai tuoi compagni di scuola. Cristo, sembra il pleistocene, invece sto scrivendo di nemmeno 15 anni fa. E sembra anche una canzone di vita sfigata vissuta per davvero tipica degli 883. Questo ha permesso di focalizzare su determinate coordinate il mio spettro musicale. A un certo punto ricordo benissimo, attorno all’autunno del 2004, l’episodio in cui un mio conoscente, una di quelle persone che dici “È impossibile che proprio costui mi abbia fatto un tale regalo”, un giorno se ne spuntò a casa di un amico comune con un disco. Quel disco iniziava con il suono di un ascensore. Apriti cielo. Era una roba mai sentita prima che mi mandò giù di testa. Tutti quei tempi sghembi che riuscivano a essere più che accattivanti e orecchiabili, tutta quella rabbia e profondità chirurgica, tutte quelle sonorità così aliene ma al contempo costruite apposta su di me, tutto quel misticismo di cui all’epoca avevo bisogno e quelle risposte dalla vita che latitavano. Tutto in un disco. Non ricordo per quanto tempo abbia ascoltato solo quel disco, ma so solo che da allora non ho mai più smesso né ho finito di trovarci cose nuove. Un modo nuovo di approcciarmi al mondo della musica che tanto mi aveva dato negli anni precedenti, in cui tutto quello che vi era di preliminare prima finalmente era sbocciato in ossessione vera e propria.
E allora vai di WinMX a cercare di completare la discografia, vai di video notturni in rotazione alle 2 di notte, vai di amico con l’adsl che poteva scaricare giga di roba a raffica mentre io ero ancora a bestemmiare appresso al suonino della connessione 56k e a inveire quando qualcuno telefonava durante la tua sola ora di connessione. E soprattutto vai di forum, un altro spazio frequentato che mi ha permesso di conoscere milioni di gruppi di cui prima non avevo idea e di capire perché alcune cose siano peggio di altre. E inoltre il forum mi ha permesso di eviscerare i contenuti dei dischi dei Tool – non avete capito che stavo parlando di loro? – all’infinita potenza, approfondendo concetti, imbattendomi in numerosi argomenti di cui non avevo mai sentito nominare, dalle filosofie mistiche orientali alle geometrie non euclidee. Molte di queste cose hanno segnato la mia vita accademica successiva facendomi imbattere nella fisica e nella matematica in un modo in cui la scuola era solo parzialmente riuscita a coinvolgermi.
Senza poi contare il fatto di ricevere come regalo per il tuo diciottesimo compleanno un basso elettrico. E indovinate proprio quale disco mi misi a suonare e studiare giorno e notte? Sorprendentemente la risposta non è Lateralus né Ænima, il primo disco che ho imparato a suonare per intero era l’omonimo dei Rage Against the Machine, o forse qualcosa dei Red Hot, ma Lateralus e Ænima vennero in un secondo momento. Perché mi ero accorto dell’esistenza di un’effettistica che non possedevo e che economicamente mi era difficile avere. E credo che sia proprio nell’estate del 2005 che ho realizzato che avrei speso gran parte dei miei soldi, se mai ne avessi guadagnato qualcuno, nella strumentazione musicale ancor più che nei dischi. E allora comprai, con enorme sforzo per una matricola universitaria, una pedalierina compatta di quelle della Digitech – rigorosamente dotata di whammy 5th/1oct – e cercai qualcuno che a Reggio Calabria avesse patologie simili alle mie. Trovai tali tizi, che da allora fanno parte della mia vita, come tutti quelli che ho potuto conoscere nell’ambiente musicale di una città in cui certi generi sono considerati più che di nicchia. Se vogliamo, la mia decisamente modesta carriera musicale cominciò proprio da quel gruppo cover Tool che si formò quasi naturalmente, da quella saletta prove semisotterranea di dubbia igiene nella quale, ogni sabato, si cercava di eviscerare ancor di più tutti i contenuti di lavori così tanto cervellotici ma perfettamente costruiti sulla mia psiche e sui miei gusti, così tanto da essere musicalmente forgiato da Justin Chancellor come solo pochi altri musicisti hanno fatto nella mia vita. Da allora non ho più smesso, nei successivi 14 anni, di suonare canzoni dei Tool, di tenere in mano il mio strumento musicale come se fosse un’appendice del mio essere e di smanettare come un ossesso su dei pedalini che, nel corso degli anni, sono cresciuti a dismisura. Lo feci così tanto che, forse per sfinimento, mia madre, quando dovetti andare via per poter studiare al nord, tenne come suoneria dei messaggi l’intro di “Schism”, solo perché le ricordava di tutte quelle innumerevoli volte in cui nella mia stanza attaccavo il jack all’amplificatore e il primo riff che usciva fuori dalle mani era proprio quello. Un altro modo per sentire magari la vicinanza di un figlio costretto a costruirsi il proprio futuro altrove.
Sono stato e sono tutt’ora abbastanza fan di molti gruppi musicali, ma l’attesa spasmodica per 10000 Days nel 2006 non credo di averla mai vissuta come per altri lavori, paradossalmente nemmeno per Fear Inoculum. Perlomeno quel candore, quell’ingenuità nel parlare di certe cose musicali, quella passione nel viverle, l’ho provata rare volte nella mia vita. Il gusto dell’attesa, sapendo che da lì a poco avrei ascoltato altri pezzi di un gruppo che significava moltissimo per me. Inutile dire che le attese vennero assolutamente ripagate, fin dalle prime note di “Vicarious”, ormai uno degli instant classic dei quattro californiani (o quasi). I Tool erano riusciti in qualche modo a rimescolare la formula, ritornando in modo molto elegante a un certo grezzume proprio degli anni 90, giocando come sempre con poliritmie e chicche catchy mascherate da forma canzone, loro marchi di fabbrica. Per alcuni con questo disco qualcosa si è rotto probabilmente, qualcuno ci ha sentito qualche calo di ispirazione, ma per me e per la mia attesa è stato un altro innegabile centro. Non mancava l’urgenza artistica, non mancava la voglia di innovarsi e la voglia di raccontare le contraddizioni dell’uomo, anche con ironia pungente. E nel giro di qualche mese mi ritrovai nell’estate di quell’anno a disincagliare ogni nota bassistica di quel disco, leggerne i contenuti, ascoltare le influenze, smanettare con i pedali, prendere per il culo chi li reputava divinità supreme – cosa fatta anche dagli stessi Tool – suonare, suonare, suonare. Ho saltato anche il primo appello dell’esame di Analisi 1 per poter andare a Marino, Roma, per vedere il mio primo concerto grosso della mia vita – scusatemi, mamma e papà – vale a dire il tour di supporto a 10000 Days, rimanendone un po’ deluso per la durata dopo ore di file, treni e difficoltà varie, nonostante il sovraccarico emozionale che mi ha causato. In tutto questo gli ascolti laterali, i gruppi affini e le nuove esperienze musicali cominciavano a farsi strada, facendomi entrare in un’altra fase della mia vita.
E a questo punto occorre fare una digressione temporale gigante. Facciamo passare così in un attimo, in due righe, tredici anni. Tredici fottutissimi, anni.
Quante cose succedono in tredici anni?
Scorrono vite intere, se ne interrompono altre. Le aspettative cambiano, cambiano le passioni, cambiano le persone, cambia la tua cultura musicale (e non), cambiano le priorità. Arriva la disillusione, l’apatia che coinvolge sfere della mia vita che mai avrei pensato che potessero atrofizzarsi e morire lentamente. Arriva la confusione sulla direzione da prendere nella vita, cambiano le città, cambiano gli ambienti. Arriva la consapevolezza dei propri mezzi, le soddisfazioni e le insoddisfazioni personali musicali e lavorative. Cambia in maniera imponderabile il mondo accademico, cambiano le prospettive e non si riesce a vederne le possibili evoluzioni. Entrano le persone, escono le persone dalla mia vita; altre rimangono, come sempre. Evolvono i gusti, cambiano i gruppi, si sciolgono i gruppi, muoiono i membri di altri gruppi, se ne scoprono altri, cambia il mio modo di suonare, il mio modo di studiare i pezzi, il mio modo di comporre.
Internet diventa alla portata di tutti coloro i quali si sentono in diritto di condividere, tramite i social network, le prime castronerie che pensano senza nemmeno farsi un minimo problema. Paradossalmente la socialità contribuisce sempre più a farmi diventare un alieno, sentirmi tremendamente a disagio con certi modi di condividere e visualizzare la propria vita, rendendomi sempre meno social e al massimo un po’ voyerista nei confronti dei cazzi altrui. Cambia il modo di usufruire della musica, nascono le piattaforme musicali in streaming e l’industria musicale sembra farsi tremendamente complicata. Il mondo dei forum sembra appartenere a un’epoca ormai troppo lontana e quasi da studiare sui libri di storia. Cambia il modo di attendere un disco, perché nel frattempo ne ho attesi molti altri. I Tool non hanno più l’esclusiva da un bel pezzo, molti altri gruppi e dischi hanno saputo darmi quelle sensazioni di soddisfazione tipiche dell’ascolto giusto nel momento giusto, ma il ruolo di Lateralus e Aenima nella mia vita non lo leva nessuno.
Ho notato anche che nel corso del tempo sempre meno dischi mi fanno emozionare o istintivamente farmi venire la pelle d’oca fin dal primo o secondo ascolto. Come è anche cambiato il tempo che dedico alla musica. Il tempo che dedico all’ascolto di un disco è diventato molto più selettivo; perdono sempre meno a certi gruppi nonostante mi renda conto che a volte ho bisogno di puro divertissement senza dover necessariamente pensare all’importanza artistica di un lavoro. Insomma, basta saper discernere, no? Un tempo avevo lo stimolo genuino di scrivere più spesso su questa piattaforma di musica, adesso non più: la disillusione generale nella vita mi ha portato a una sorta di apatia che ha coinvolto anche questa sfera che era molto attiva fino a qualche anno fa. E se deve diventare una forzatura trovar del tempo per farlo allora è meglio non farlo. In tutto questo però la mia musicoteca digitale continua a crescere in maniera ossessiva, e l’organizzazione dei tag e delle cartelle sul mio HD continua a prendere sempre più tempo.
Questo è in parte quello che è successo a me. Figurarsi come cambia la vita di quattro musicisti che hanno passato i loro ultimi 20 anni a girare per il mondo proponendo sempre gli stessi pezzi e ad avere innumerevoli rivoluzioni nel modo di pensare e di guardare il mondo, tra figli, malattie, aziende vinicole e esperienze mistiche varie. Cambia il fisico, cambia l’età: due di loro si stanno avvicinando ai 60 anni, non dimentichiamolo. Nel frattempo sono stati capaci di darci soltanto voci di corridoio, date fittizie di uscita e tante altre cose alle quali alla fine ci si anestetizza per non rimanerci troppo male quando scopri che è l’ennesima bufala. O forse è solo l’invecchiamento che provoca una tal diminuzione della passione legata all’attesa. Alcune cose si vivono in modo molto più pacato da un certo punto in poi.
Tralascio il live di Firenze a Giugno 2019, da me preso come un evento “welcome back, my old fellas”. È stato proprio bello per quello e perché ho visto un gruppo tritasassi in forma, nonostante la marea di gente insopportabile attorno a me. Purtroppo mi rendo conto che non riesco più a gestire i concerti con più di 500 persone attorno. Un live che comunque mi ha musicalmente soddisfatto, lasciato a bocca aperta e che mi ha fatto ben predisporre al nuovo disco. Sulle due nuove canzoni ero preso il giusto, con buone e cattive impressioni, ma avrei atteso il disco per poterle sentire a dovere e farmi un’idea migliore sul tutto. Ovviamente era da giorni che ne parlavo con i miei amici senza sbilanciarmi nemmeno troppo.
Ad ogni modo arriviamo all’Agosto del 2019, in un battito di ciglia.
Mi trovavo a Favignana, in vacanza con alcuni miei cari amici – alcuni dei quali soffrono della stessa patologia musicale che mi affligge – con una gran voglia di starmene unicamente con le palle a mollo il più possibile, dopo un annetto di bestemmie lavorative. Nel frattempo ero tornato a bazzicare alcune piattaforme digitali che, con i rumours sempre più insistenti di prossima uscita del disco, sono tornati a pullulare di post, thread, spoiler alert e altri vocaboli che temevo di aver perso per sempre: vecchi nickname che mi rievocano infinite discussioni, voglie di esplorare il mondo che sembrano appartenere a un me stesso molto lontano. Visitando il 3rd eye forum – i cui membri hanno formato successivamente il giornale online con il quale ho collaborato per anni, prima di GotR – leggo di un’imminente uscita del singolo, “Fear Inoculum”. La prima cosa che penso è che, in quell’isola lontano da tutto e tutti, avevo bisogno comunque del mio spazio sacro. Raccolgo la prima sdraio che vedo, convinco il mio amico a venire con me sotto un albero all’ombra dei 35 gradi di quel giorno, attivo la cassa bluetooth e avviamo Spotify. Una volta probabilmente avrei aspettato l’intero disco o lo avrei comprato a scatola chiusa, ma i tempi sono indubbiamente cambiati e anche i Tool stessi hanno solo potuto constatare la cosa. Considerando che poi l’unica edizione fisica prevista era la deluxe edition al limite dell’anacronistico da circa 80 euro per noi poveri fan europei… beh, direi che la scatola chiusa questa volta me la sarei risparmiata (spoiler: quell’edizione lì l’ho comunque comprata, ordinandola in un negozio di dischi come avrei fatto tredici anni prima, ma vabbè…).
Ad ogni modo, parte la traccia. Ascolto. Passano dieci minuti e alla fine mi dico “Beh? E quindi?”
La risentiremo altre sei volte cercando di capirci qualcosa. Il mio amico cerca subito di districarsi e capire i tempi incastrati nel pezzo, io però mi chiedo e constato altro.
La verità è che istintivamente non mi è scattato nulla, e non potevo immaginarmi nulla di più distante da quel ragazzino che 15 anni prima faceva partire l’ascensore di “The Grudge”, il maiale subacqueo di “Intolerance” o il ping pong di “Stinkfist”. Sono io il problema o sono i Tool?
Il pezzo istintivamente mi suona freddo e manieristico, sia per struttura che per i riff in sé. Mai prima di questo giorno mi è venuto da dire “ah, ma in questo passaggio mi ricorda il pezzo X, mentre in quest’altro passaggio mi ricorda il pezzo Y” – tralasciando “Rosetta Stoned” in cui l’autoironia era voluta anche nella musica. Mi aspettavo un’altra rivoluzione, era lecito farlo e pretenderlo da loro dopo 13 anni? Ora, per carità, non parliamo di riciclo: le carte in tavola sono state mescolate e i Tool suonano diversi in qualche modo dai precedenti lavori, ma…
L’unico punto fermo era lui, Justin Chancellor, l’unico a suonare forse sempre le stesse cose ma a farlo sembrare sempre come se suonasse tutt’altro. L’unico che mi faceva dire “ok, ora prendo il basso e mi scrivo su un cazzo di pezzo di carta quello che sta combinando”. Però il resto mi ha trasmesso freddezza, come se volessero puntare più al mind-blowing e meno all’heart-blowing. L’autoindulgenza è in pratica dietro l’angolo così. È tutto più centrato sulle poliritmie e poco centrato sulle melodie. Alla fine sono riuscito ad accettare anche il lavoro di Maynard che, come visto in Eat the Elephant degli A Perfect Circle, deve fare i conti con la propria vecchiaia e reinventarsi stilisticamente, aiutandosi spesso anche con una certa effettistica vocale usata con gusto. Forse qualche passaggio forzato, un po’ di svogliatezza, alcune linee melodiche che invece rimangono in testa. Ma in generale la resa del pezzo mi ha lasciato con più dubbi che certezze. Certo le mosse di marketing e certe dichiarazioni sul modo di lavorare dei quattro in questo disco non aiutano.
Decido quindi di non ascoltare più “Fear Inoculum” e di aspettare l’uscita del disco, per poterlo incastonare meglio con la coerenza del lavoro intero.
Sono io a essere cambiato troppo o il modo in cui sono cambiati i Tool che non mi va bene? Devo rassegnarmi a qualcosa di dignitoso o continuare a pretendere il capolavoro che scoperchia completamente la mia vita musicale?
Il disco sarebbe dovuto uscire negli store il 30 Agosto, ma già dei leak erano disponibili alcuni giorni prima. Non vi prendo in giro, non sono riuscito a resistere. Così, assieme ad un amico, dotati del giusto whiskey torbato scozzese e colmi di una peperonata che solo un calabrese è in grado di fare, ci accingiamo all’ascolto di Fear Inoculum, versione non digitale senza intermezzi. Cosa rimane di quell’ascolto? Una sbornia gigante. Troppa roba, troppo tutto, troppe cose. Alcuni pezzi mi hanno fatto venire la pelle d’oca, altri mi hanno disturbato per quanto sapevano di già sentito, altri ancora mi hanno reso felicissimo di esser sopravvissuto per tredici anni e sentire quei quattro darci dentro. Le canzone sentite dal vivo qualche mese prime sono state le prime a uscire completamente rivalutate in positivo dalla versione in studio. Ma soprattutto è rimasta la voglia di riascoltare più e più volte questo disco, di parlarne con altri e di analizzarne punti di forza e debolezza.
La title track conferma alcuni dei difetti già citati qualche riga fa, ma nell’economia dell’album è anche la canzone perfetta che può fungere da introduzione al disco, summa della loro intera discografia. Inoltre è cresciuta notevolmente con gli ascolti. Maynard avrebbe potuto rendere più memorabile il “ritornello” e altre parti, rendendo meno piatto un pezzo che si lascia ascoltare piacevolmente. “Pneuma” è il pezzo che ho amato e al contempo odiato: in questo brano i rimandi al passato elaborati dai nostri (“Schism” e “The Patient” su tutte) mi hanno dato davvero fastidio, ma è anche il pezzo in cui forse Maynard fa un lavoro metrico più elaborato nonostante all’inizio mi sembrasse fuori fuoco e poco ispirato. Meravigliosa la parte centrale in cui il pezzo cresce, incalzato dal synth sempre più importante di Carey, fino alla riproposizione chitarristica del riff iniziale e l’ultimo ritornello. Non si sentiva onestamente il bisogno dell’ulteriore solo finale di Jones in chiusura di pezzo. Segue “Invincible”, che per me rimane il pezzo migliore del disco, il pezzo che fin da subito mi è saputo di fresco e nuovo con un Maynard ispiratissimo al testo che rivela un concept commovente sull’avanzamento inesorabile del tempo. Forse prima dell’ultimo ritornello la parte ritmica obbligata è un po’ troppo tirata per le lunghe, ma si sentono tra una battuta e l’altra delle variazioni impercettibili, soprattutto sugli accenti dettati da un mostruoso Danny Carey, vero protagonista del disco. Sono i dettagli che fanno la differenza, ma non sempre se ne sente il bisogno. “Descending” è il pezzo più denso del disco, soprattutto dal punto di vista degli arrangiamenti, vero ricettacolo di tutto quello che sono i Tool e un Justin Chancellor in splendida forma che richiama alcune delle soluzioni più riuscite nelle versioni di Salival di “You Lied” e “No Quarter”. Un pezzo complesso e intricato in cui gli evidenti richiami al passato sono combinati in modo da risultare parzialmente rinnovati e esasperati nel loro voler essere incastrati. Non a caso è il pezzo in cui Maynard lascia a metà il timone agli altri, dopo una prova vocale comunque convincente e in media con quanto sentito nell’intero disco. Rimane il dubbio se in alcuni punti il cantante mascheri con i propri limiti un fondo di svogliatezza e impazienza nei confronti degli altri tre. “Culling Voices” è il pezzo più spiazzante, il più semplice e diretto del disco, una soffusa melodia che maschera un j’accuse volto al mondo dei media multimediali sempre più ossessionati dal clamore della notizia e meno dalla sua effettiva verità. “Chocolate Chip Trip” è un intermezzo che rappresenta un omaggio nemmeno tanto velato a una delle ispirazioni batteristiche massime di Carey, Billy Cobham. Un pezzo dimenticabile, a meno non stia scrivendo a dei batteristi, funzionale soltanto a introdurre il pezzo più granitico del disco, “7empest”. Questo brano, il cui intro è un evidente omaggio dei King Crimson Discipline-era, rappresenta il punto finale di un percorso iniziato in Undertow e in cui i nostri confluiscono 20 anni di esperienza. Il cantato di Maynard è volutamente ispirato a quell’era, mentre Justin gioca molto meno con gli effetti e si D’Amourizza alla perfezione finendo a costituire con Carey un unico mastodonte polimorfo. Questo è il testamento chitarristico di Adam Jones, che sale alla ribalta e guida l’ascoltatore in un enorme trip psichedelico tritaossa senza pause. Gli intermezzi della versione digitale servono unicamente a smorzare la tensione tra un pezzo e l’altro di un monolite imponente, ma effettivamente non aggiungono nulla a quanto detto finora. Anzi, la gestione degli intermezzi tra la versione digitale e quella fisica è abbastanza vergognosa, cosa che mi sento di dire anche per la gestione del lato marketing del disco. Quasi una presa in giro per i fan europei.
Ed è per tutto questo che oggi non metterò un voto. Come fai a valutare numericamente qualcosa che, come te, cresce, evolve, cambia e assume forme diverse a seconda delle fasi della tua vita? Al massimo potrei paragonarli con la loro storia, secondo classifiche interne e secondo criteri oggettivi che non possono mancare, soprattutto dopo centinaia di recensioni che ho scritto negli anni e dopo miliardi di ascolti musicali proveniente da qualunque epoca della storia umana. Potrei dire che questo disco sembra inferiore a Lateralus, Ænima, Undertow e forse se la gioca con 10000 Days. Ma comunque rimane uno dei dischi migliori della scena alternativa del 2019 e non vuol dire che non sia degnamente un disco dei Tool: è uno di quei dischi che altri gruppi venderebbero l’anima al diavolo per poterlo fare, nonché uno di quei dischi che sicuramente non faranno cambiare idea a chi non sono piaciuti mai i Tool. Nessuno a quasi 60 anni sarebbe in grado di tirar fuori un disco del genere. E poi non dimentichiamo che tutti i dischi dei Tool sono lavori diversi, fatti in epoche diverse, con urgenze artistiche diverse. È un disco con difetti e pregi cangianti che possono venir fuori un giorno in un modo e un giorno in un altro e sicuramente non è perfetto. Un disco che dura 90 minuti e richiede attenzione in un’epoca in cui anche la musica è un consumo di massa veloce e fruibile da tutti. Fear Inoculum ha l’indubbio pregio di avere una fluidità pazzesca, merito anche di una produzione superlativa e di una composizione dei pezzi che ha il pregio di non far pesare la durata estrema dei pezzi, tralasciando qualche passaggio evitabile comunque limitato a qualche minuto. Paradossalmente si ha l’impressione alla fine che i pezzi – alla fine sei – siano anche pochi. Ma è colpa delle aspettative al netto dei tredici anni di attesa? Colpa del fatto che siamo sempre stati abituati bene?
Alcuni miei amici si sono stracciati le vesti e adirati notevolmente, aspettandosi una rivoluzione che non c’è. Ma l’evoluzione c’è, è sottile e discreta: il punto di partenza è innegabilmente Lateralus. L’autocitazionismo non rimane fermo alla citazione stessa, ma viene elaborato verso un altro modo di comporre i pezzi, più improntato alla costruzione dell’atmosfera ritmica e se vogliamo verso una sorta di prog atmosferico molto denso. Però in alcuni tratti sembra che i nostri ci siano andati pesante con l’overthinking: in alcuni tratti non viene fuori quella naturalezza tipica del passato nella quale i pezzi si costruivano quasi da soli. Cosa pretendiamo poi se si continua a confrontare questo lavoro con il passato? Certi modi di comporre i riff li hanno inventati loro ed è chiaro che i pezzi dei Tool suonino come dovrebbero suonare i Tool, riconoscibilissimi tra tutti. Un intero immaginario musicale costruito sul drop D. Più che un calo di ispirazione mi sembra voglia di ripercorrere tutto quello che è stato in chiave più esasperatamente prog. Maynard lavora più sottobanco e quel poco che fa lo fa bene tutto sommato, ricalibrando il proprio registro vocale: è ovvio che anche qui il paragone con il passato risulta particolarmente scomodo, ma non si può dire che faccia un lavoro vergognoso. È un uomo che ha risolto i propri demoni e in cui la propria parte maschile si è ricongiunta con quella femminile. Alcuni passaggi a vuoto ci sono, in qualche pezzo avrei preferito che intervenisse maggiormente, ma forse anche lui si proietta verso un modo disilluso e cinico di vedere il mondo e i rapporti con gli altri. Da questo punto di vista in effetti lascia in molti punti la scena agli altri tre, dandone in alcuni momenti il giusto risalto, in altri lasciandoli troppo soli nelle loro elucubrazioni strumentali, prendendosi per sé solo il concept del disco basato sul numero 7 e ancora tutto da analizzare. Anzi, in questo disco è Adam Jones che diventa la seconda voce aggiunta in alcuni tratti, assieme a un Danny Carey mai così tecnicamente imponente e devastante. Justin Chancellor fa un lavoro più di supporto, ma in certi momenti i suoi spazi se li prende eccome, tra un delay/flanger iconico e una distorsione spaccasassi delle sue. Fear Inoculum, vaccino per le paure, a volte sembra un messaggio rivolto ai membri strumentisti, ossessionati dalla paura dell’imperfezione di un disco che sembrava destinato a rimanere in cantiere per sempre.
Altri miei amici sono rimasti abbastanza freddi con il susseguirsi degli ascolti, come me il giorno dell’ascolto della title track. Mi sembra che l’urgenza artistica sia meno immediata e irruenta. Occorre capire se quello che i Tool – sulla soglia della terza età – vogliono dirci vada d’accordo con quel che proviamo noi e con i nostri bisogni. Tra chi suona e chi ascolta c’è chi vive nello spettro del passato, chi diparte notevolmente dalle coordinate tracciate dagli altri, prendendo altre strade: è la vita. In ogni caso io sento il bisogno di aver qualcosa ancora a nome Tool, forse anche per la voglia di avere un altro lavoro che davvero rivolti il mio mondo della musica come fatto in passato e far apprezzare meglio anche Fear Inoculum, in modo da farci dire che questa è la dimensione massima alla quale possono arrivare, spingendo i limiti della cerebralità di quanto avevano fatto finora e andare oltre. Come se questo disco fosse un ponte verso altri lidi. Ma forse non uscirà più nessun lavoro a nome Tool, e questo è forse solo l’ultimo lavoro di uno dei gruppi più seminali della mia vita che li consolida come faro e metro di paragone di un intero genere. Fear Inoculum è un disco che sembra tutto e il contrario di tutto, senza picchi evidenti e con molti picchi nascosti: temo che così lo sarà per anni. È un disco che riflette le contraddizioni dell’età adulta e rispecchia tutte le nostre indecisioni, assieme alle speranze disilluse. È questo il vaccino? Questo vuol dire che il disco mi soddisfa o che non mi soddisfa?
A che pro dare un voto? È anche la mia scala di paragone, troppo invischiata con le mie vicissitudini e con i miei sentimenti. Anche con tutto quello che non ho avuto la forza di raccontarvi.
Insomma, come si fa?
In ogni caso ci vuole sempre tempo per dedicarsi alle cose che davvero amiamo e che ci fanno sentire a posto col mondo; quindi io, questo disco, assieme a tanti altri, continuerò a ascoltarlo. E suonarlo. Come facevo più di tredici anni fa.