Storia singolare e decisamente triste quella dei We Lost The Sea. Iniziata come furiosa compagine post-metal, la carriera degli australiani vive una svolta tragica nel 2013 con la scomparsa del vocalist Chris Torpy, morto suicida. La band non si scioglie e nel 2015 pubblica Departure Songs, che è semplicemente uno dei dischi post-rock più drammatici ed emozionanti mai pubblicati, nonché fulgido esempio dello stato di salute di un genere che, quando ci metti l’anima, ha ancora qualcosa da dire. Così tanto che questa sofferenza colpisce persino Ricky Gervais, che inevitabilmente la associa al tema della perdita della struggente serie “Afterlife”, inserendo “A Gallant Gentlemen” nella colonna sonora.
Volendo avrebbero anche potuto fermarsi qui, ma anche stavolta il sestetto tira avanti con il considerevole fardello delle cose passate, e torna sul mercato con il nuovo Triumph & Disaster, pubblicato a ottobre per una collaborazione di tutto rispetto fra Bird’s Robe Records, Translation Loss, Holy Roar e Dunk!Records.
Pare che i We Lost The Sea abbiano piena contezza di quanto sia stato importante il lavoro precedente, e non ci provano nemmeno a bissarlo: già l’apertura in medias res di “Towers” con un riff aspro e sostenuto lascia intendere uno sviluppo differente del sound degli australiani, potremmo anche dire metallico. E in effetti è così, ma non solo: in un’alternanza di brani lunghi e brevi la band include, sovrappone, incastra e stratifica diversi momenti, atmosfere, sfumature. La stessa “Towers” non è ascrivibile a un indirizzo specifico, giacché al suo interno si inseguono crescendo, mid-tempo, momenti pianistici ben inseriti e un finale tragico, in uno sviluppo continuo e progressivo della materia sonora. Il modo in cui i We Lost The Sea intendono il post-rock può ricordare, ad esempio, le costruzioni orchestrali di ampio respiro degli ultimi Do Make Say Think, a cui si accostano per qualità dell’elaborazione tematica. Tutto l’album vive di questo avvicendarsi di pieni e vuoti, frammenti che appaiono e scompaiono. Come in una “A Beautiful Collapse” che a un arpeggio intimista giustappone un riffone epico à la Cult Of Luna – altro riferimento presente a più riprese, come nel momento elettronico sul finale del medesimo brano – o la bellissima “Parting Ways” che gioca su andamenti poco allineati al genere, per poi aprirsi a uno sviluppo che più post-rock non si può, di quello con i lacrimoni, e poi ancora tornare alle fasi iniziali in maniera circolare. Storia a sé per la conclusiva “Mother’s Hymn”, brano cantato da un’eccezionale Louise Nutting e basato proprio sulle sue desolanti melodie vocali, a cui a un certo punto si somma una tromba e inizia il brivido.
C’è un dettaglio che non abbiamo ancora esplicitato, che però spiega quanto riassunto finora, ed è che Triumph & Disaster è un concept album. Per la precisione un racconto post-apocalittico sul collasso del pianeta Terra, visto come se fosse una storia per bambini, filtrato dagli occhi di una madre e suo figlio, ultimi sopravvissuti al mondo. Si sciolgono dei nodi, dunque, circa le alternanze di cui sopra, i vari momenti del discorso e del racconto riemergono più chiari, in un sovrapporsi di tenerezza e annichilimento.
Insomma, l’album è una nuova manifestazione delle qualità inoppugnabili dei We Lost The Sea quando si tratta di comporre musica e tesservi un abito concettuale. Non ce n’è quasi per nessuno ad oggi, e pazienza se questo non è un secondo Departure Songs. La tragedia umana, personale, è diventata tragedia dell’umanità e viene da chiedersi se non siano, in realtà, due facce della stessa medaglia.
(Bird’s Robe Records, Translation Loss, Holy Roar, Dunk!Records, 2019)
1. Towers
2. A Beautiful Collapse
3. Dust
4. Parting Ways
5. Distant Shores
6. The Last Sun
7. Mother’s Hymn