“C’era una volta, tanto tempo fa, in un posto lontano lontano…”. Si potrebbe iniziare così, con la classica formula che preannuncia una narrazione in cui i contorni del mito e della leggenda si perdono nella notte dei tempi, un ipotetico racconto retrospettivo che debba spiegare a un neofita quali siano le vere radici di un genere come il doom, che ad anni di distanza ha visto mutare buona parte dei tratti caratteristici degli esordi e che, nella sua declinazione attualmente prevalente, rischierebbe con ogni probabilità di essere misconosciuto dai devoti della prima ora. Con simili premesse, peraltro, è inevitabile che chiunque osi ripercorrere i sentieri di un’epoca oggettivamente lontana per gusto e contesto, rischi di ritrovarsi pericolosamente sospeso tra due baratri potenzialmente letali, tra chi non possiede le coordinate per entrare in sintonia con suoni e frequenze oggettivamente “antiche” e chi, avendole al contrario divinizzate cristallizzando il tempo, non mancherà di trovare difetti e lacune nel confronto con modelli ormai assurti alla dimensione della venerazione.
Fortunatamente, però, ci sono ancora artisti che scelgono di raccogliere la sfida incuranti di rischi e pregiudizi, mettendosi alla prova con l’obiettivo di rispondere e rendere conto esclusivamente ai dettami della propria ispirazione. E’ sicuramente il caso di quello che possiamo a tutti gli effetti considerare un supergruppo, che riunisce sotto il moniker Bottomless alcuni dei protagonisti indiscussi della scena underground tricolore degli ultimi anni, sia pure su rotte e frequenze non del tutto assimilabili a quelle solcate in questo omonimo album di debutto. Ecco infatti da un lato l’inossidabile coppia Giorgio Trombino/David Lucido, già alla plancia di comando di innumerevoli progetti tra cui citiamo per brevità gli Assumption e i sia pur dissolti Haemophagus, e dall’altra una delle regine in rampa di lancio anche in ottica internazionale come Sara Bianchin, apprezzatissima vocalist di casa Messa ma che qui si cimenta esclusivamente con le quattro corde (non esattamente un unicum, per lei, visto che la ritroviamo agli stessi remi sul vascello death/grind Restos Humanos). E sempre sull’orizzonte death/grind si erano mossi gli Haemophagus, prima che il duo Trombino/Lucido trovasse una (a parere di chi scrive) più consona collocazione in habitat doom/death a spiccate screziature funeral in veste Assumption, come abbondantemente certificato dall’eccellente Absconditus del 2018. Data questa molteplicità di cimenti e storie personali, gli approdi artistici della collaborazione erano tutt’altro che prevedibili a priori e, a conti fatti, la proposta dei Bottomless è per molti aspetti sorprendente, focalizzata com’è esclusivamente su un doom di matrice non solo classica ma addirittura di diretta filiazione seventies. Il terzetto acquartierato sotto le insegne Spikerot Records, infatti, può essere tranquillamente annoverato tra i diplomati delle classi che hanno per prime tratto insegnamento dall’augusta docenza sabbathiana, in quella prima ondata doom contraddistinta da un’essenzialità al limite del minimalismo, lontanissima dalle ridondanze e dal sovraccarico emozionale che sono diventati cifra caratteristica, per fare un esempio, della scuola My Dying Bride e di tutta la corrente scandinava in più o meno marcata contaminazione con le poetiche gothic o melodic death. Nei quarantasei minuti di questo Bottomless, allora, ci si accomoda confortevolmente sui sedili di una macchina del tempo alla cui guida si scorgono nitide le sagome dei padri nobili Saint Vitus e Pentagram, impegnati a disegnare strutture massicce che esaltano le potenzialità di una sezione ritmica qualitativamente impeccabile e contemporaneamente a valorizzare la centralità della funzione dei riff, utilizzati con misurata parsimonia ma sempre fondamentali per scaricare la tensione accumulata nelle parti cadenzate, generando un impasto largamente debitore delle soluzioni hard rock di chiara impronta settantiana. Su tutto si staglia la prova al microfono di Giorgio Trombino, di cui conoscevamo le doti in ambito scream e (ancor più) growl ma che qui stupisce per la disinvoltura con cui affronta le insidie di quel clean malinconico/teatrale vagamente decadente che è la cifra stilistica dei giganti, da Ozzy a Scott Reagers o Bobby Liebling. Articolata in dieci episodi, la tracklist è un arsenale di soluzioni, colori e sapori antichi che, anche se non riscrivono certo la storia del genere, meritano comunque un plauso per la capacità dei Nostri di non ricorrere praticamente mai al “mestiere”, trasmettendo al contrario una sensazione di freschezza complessiva che è già una premessa di operazione riuscita, su queste frequenze. Indubbiamente, non tutti i panorami che scorrono fuori dal finestrino hanno lo stesso potere di incollarci al vetro (“The Talking Mask”, ad esempio, gira un po’ troppo a vuoto nel finale vanificando gli arabeschi occult dell’avvio, così come il pur eccellente assolo di “Losing Shape” non riesce a elevare il brano oltre la soglia di un ascolto gradevole), ma sull’altro piatto della bilancia vanno assolutamente lodate le pretese da grande classico dell’opener “Monastery”, sospesa tra architetture imponenti e un retrogusto acido che si insinua sfuocando la visione, o la macchina del ritmo accesa in “Centuries Asleep” o ancora le spire ipnotiche che avvolgono la titletrack. Dovendo scegliere il vertice dell’album, però, vale forse la pena puntare sulle due tracce più atipiche della compagnia, a cominciare dalla resa relativamente multicolore di “Loveless Reign”, impreziosita da cambi di ritmo e da un assolo di scuola stoner (oltre che da un richiamo più che inatteso a una “Stand Tight”, direttamente dal magazzino Accept), per finire con la splendida “Ash”, iniettata di vapori psichedelici potenziati dal cantato di Trombino, che non ha paura di confrontarsi per buona parte del brano con la lezione di sua maestà Jim Morrison… uscendone tutt’altro che con le ossa rotte.
Un salto indietro nel tempo spiccato con intelligenza e senso della misura, un lavoro da cui sono bandite anacronistiche devozioni cerebralmente fine a se stesse, una band che non ha bisogno di ammantarsi di una stucchevole patina vintage per mascherare vuoti di ispirazione, Bottomless è un album che pone un’ottima base per un percorso auspicabilmente da proseguire. Le qualità ci sono, la prova-debutto è superata, non resta che restare sintonizzati sulle prossime mosse di questi ragazzi.
(Spikerot Records, 2021)
1. Monastery
2. Centuries Asleep
3. Bottomless
4. The Talking Mask
5. Ash
6. Losing Shape
7. Loveless Reign
8. Vestige
9. Cradling Obsession
10. Hell Vacation