Un privilegio riservato a pochissimi e, contemporaneamente, una grandissima responsabilità… Possiamo forse riassumerla più o meno così, la posizione degli Ahab guardando le mappe che provano a mettere un po’ d’ordine nei metal-continenti, tracciando confini tra i vari generi e sottogeneri che col trascorrere degli anni hanno reso sempre più mosso e articolato il paesaggio pentagrammatico. Se poi a questo aggiungiamo che il quartetto tedesco si è di fatto auto-collocato in una nicchia costruita a propria misura, il risultato è che ogni release deve dimostrare di meritarsi l’eccezionalità di uno status che ha pochi eguali, nella scena metal contemporanea.
A complicare ulteriormente il quadro, ci ha pensato oltretutto il prolungato silenzio in cui il combo di Heidelberg si è chiuso dopo l’ultima uscita, The Boats of The Glen Carrig, datata nell’ormai lontano 2015 e, di conseguenza, ultima prova di esistenza in vita di un intero sottogenere, quel nautik doom con cui la band ha da sempre definito i propri cimenti. Si può discutere a lungo sulla legittimità o meno di una simile affermazione e si possono anche in parte condividere le obiezioni di tutti coloro che ritengono che la creazione di un sottogenere debba registrare anche differenze formali significative rispetto all’”offerta” già esistente oltre che una semplice, per quanto forte, caratterizzazione sul versante dell’ispirazione, ma va detto che una siffatta impostazione evita se non altro di apporre frettolosamente sulla discografia dei Nostri l’etichetta funeral, che mai come in questo caso risulta fuorviante e, soprattutto, decisamente riduttiva. Intendiamoci, nessuno sostiene che gli Ahab siano estranei ai rallentamenti del ritmo, osando spingersi finanche alla soglia della pachidermicità, ma fin dagli esordi gli innegabili elementi di contatto con Mournful Congregation o Skepticism sono stati solo una delle componenti della loro poetica, in cui ha sempre inciso almeno con pari forza una dimensione epico/narrativa tale da rendere le atmosfere complessive ben più mosse e articolate di quanto non prevedano le classiche cristallizzazioni funeral. Oltretutto, rispetto ai primi lavori oggettivamente più oscuri e pesanti, già nelle ultime prove avevamo assistito a un consistente incremento di riflessi “eretici” rispetto alla stessa ortodossia doom, con elementi tipicamente prog in sempre più significativa emersione e questo The Coral Tombs conferma e spinge oltre le suggestioni già più che in filigrana presenti nel predecessore, con l’aggiunta di qualche coriandolo psichedelico libero di volteggiare sulle tracce. Per il resto, come sempre la scintilla creativa che anima la messa in acqua del vascello Ahab ha profonde radici letterarie e così, dopo Herman Melville, Edgar Allan Poe e William Hodgson, chiamati in causa nei lavori precedenti, l’onore tocca stavolta a Jules Verne e al suo Ventimila Leghe Sotto i Mari, immortale romanzo a sfondo nautico in cui scienza, fantascienza e passione per esplorazione e avventura riflettono i gusti di un’intera epoca. Stiamo parlando di fine Ottocento e, al di là dell’avvenuta (se pur ancora sommaria) ricognizione di buona parte del globo terracqueo a seguito dell’epopea delle grandi esplorazioni, le sconfinate superfici oceaniche e tutto ciò che sembravano nascondere erano ancora avvolte nel mistero e oggetto delle speculazioni più immaginifiche, in un misto di curiosità e terrore che diventava terreno fertilissimo per inchiodare alle pagine i lettori. Non stupisce, quindi, che i protagonisti del romanzo, dal professor Arronax al fido cameriere Conseil, dal fiociniere Ned Land a Capitan Nemo, fossero gli eroi incaricati di dissipare la nebbia dell’ignoto diventandone però allo stesso tempo parte integrante e ampliandone continuamente i confini. Su questo canovaccio letterario gli Ahab intrecciano atmosfere e trame sonore che sono ormai il loro marchio di fabbrica consolidato, a partire da andature cadenzate in cui l’eroismo dell’impresa assume tratti di prometeica affermazione contro i limiti posti dal Fato all’umana natura, passando per un’attitudine descrittivo/paesaggistica che li rende sopraffini cesellatori di immagini, per finire con una non meno straordinaria capacità di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore in ogni traversata. Tracciata una simile traiettoria artistica, diventa praticamente inevitabile l’incontro con la lezione My Dying Bride e l’approccio decadente/teatrale del combo di Aaron Stainthorpe riecheggia soprattutto nella prova al microfono del vocalist Daniel Droste, che dispensa gioielli di pari caratura tra growl e clean confermando un processo di crescita significativo che ne sta esaltando le doti da interprete puro. Preso posto a bordo, allora, non resta che prepararsi a una navigazione caleidoscopicamente declinata e, immediatamente, si viene sballottati da un minuto di pura tempesta, scatenata dall’ospite Chris Noir con una spigolosissima incursione in scream, ma quasi subito l’opener “Prof. Arronax’ descent into the vast oceans” vira verso quei lidi prog che da questo momento in poi saranno costante approdo in tutte le fermate, sia pure con peso specifico e dosaggi diversi a seconda degli episodi. Se è vero infatti che la successiva “Colossus of the liquid graves” mantiene una barra più dritta verso classici orizzonti doom e “Mobilis in mobili” gioca per larghi tratti le sue (ottime) carte su un tiro maestosamente epico, è altrettanto vero che in entrambe le circostanze emerge uno spiccato gusto per le architetture articolate e una spinta continua verso la dimensione-suite dei brani. Non bastassero le prove fin qui accumulate, ci si può sintonizzare sulle spire orientaleggianti che aprono la magnifica “The sea as a desert” facendo vibrare corde dreamtheateriane, sulla scia di una “Bombay Vindaloo” su cui Droste recita una ipnotica e struggente litania quasi in assetto voce fuori campo. Dopo una “A coral tomb” su cui spirano effettivamente gli unici refoli convintamente funeral dell’intero platter (ma attenzione comunque alle movenze jazz che scombinano parzialmente il finale), “Ægri somnia” privilegia prospettive claustrofobiche e allucinate, avvolgendo la traccia con vapori psichedelici illuminati sinistramente da flash improvvisi. Giunti al termine del viaggio, il gran finale non poteva che spettare a un brano dai toni drammatici ed evocativi, preannunciati del resto da un titolo come “The mælstrom”, in cui rivive il gorgo che nel romanzo provoca il naufragio del sottomarino Nautilus. La sfida alle forze della Natura (o l’assalto al cielo della conoscenza, se vogliamo cogliere un’eco dell’Ulisse dantesco) si conclude con una sconfitta, restano il coraggio dell’impresa e l’orgogliosa rivendicazione della scelta di affrontare il Destino e per aumentare il tasso di titanica grandiosità viene chiamato a convegno un mostro sacro come Greg Chandler, in libera uscita dalla casa madre Esoteric. Il risultato è ovviamente da applausi, con doom e prog (con lo sguardo stavolta ai Queensrÿche dell’era The Warning) a contendersi il proscenio come colonna sonora della tragedia.
Burrasche e bonacce, risacche e maree, riflessi delle onde in superficie e buio abissale, non c’è un solo angolo della vastità degli oceani che non venga scandagliato dal vascello Ahab, messo in acqua come moderno Nautilus in modalità metafora per descrivere e raccontare fatiche, pericoli e mostri della contemporaneità. Otto anni di interminabile attesa ma ne valeva assolutamente la pena, The Coral Tombs è la prova definitiva, per chi avesse ancora dubbi su esistenza e legittimità artistica del nautik doom.
(Napalm Records, 2023)
1. Prof. Arronax’ descent into the vast oceans
2. Colossus of the liquid graves
3. Mobilis in mobili
4. The sea as a desert
5. A coral tomb
6. Ægri somnia
7. The mælstrom