Dopo un omonimo EP uscito qualche anno fa per la ÙA Records, il combo umbro dei Six Feet Tall arricchisce la propria line-up con l’inserimento di una seconda chitarra – Michele Perla dei Die Abete, mentre il trio storico è formato da Diego dei Cayman the Animal e Federico e Andrea dei Northwoods – e sforna un nuovo e sorprendente EP, Be Grave with Your Life, uscito in questi giorni per Mother Ship, To Lose la Track ed Inferno Store.
Sono sei i brani che compongono Be Grave with Your Life, di cui due, “Do/Don’t” e “Regaining Soil”, accompagnati da dei videoclip, hanno anticipato l’uscita dell’album. Rispetto al primo EP, validissimo per carità, mi pare si possa parlare di un’ulteriore crescita, clamorosa. E non è solo dovuta all’innesto della seconda chitarra e ai bellissimi intrecci che ne vengono fuori, ma si direbbe che ad aver fatto un grande salto di qualità siano in primis scrittura ed interpretazione. Riguardo quest’ultima spicca principalmente la personalità e lo stile unico e insostituibile di Diego. La scrittura invece si avvale di strutture relativamente semplici, legate molto a un certo alternative rock anni ’90, ma costituita da soluzioni ardite, personali, sempre in bilico tra momenti di attesa e scoppi, tra sfuriate liberatorie e ritmiche secche e precise come bastonate. Stilisticamente l’EP chiama invece in causa il meglio del noisecore contemporaneo (Coliseum, Whores) quanto il noise/alternative/post-hardcore di Helmet e Jawbox. Il mix è affidato a Dave Curran (Unsane) e il mastering a Claudio Adamo (Cani dei Portici).
Be Grave with Your Life è un piccolo gioiello, un mix tra delicatezza e legnate, spigolature caotiche, strafottenza e levità. Un EP da ascoltare necessariamente se si seguono certe sonorità. Poco più giù trovate la nostra intervista.
(Mother Ship, To Lose la Track, Inferno Store, 2020)
01. Paleolithic Before Paleo Was Cool
02. Do/Don’t
03. Regaining Soil
04. Hold My Mask
05. Still Waters Are Still Asshole
06. Fear Enough7.5
Ciao ragazzi e benvenuti su Grind on the Road. Il passaggio dal primo a EP a Be Grave with Your Life è avvenuto all’insegno di un ingresso nella line-up; cioè la chitarra di Michele Perla dei Die Abete. Com’è cambiata la vostra scritture e le dinamiche interne con quest’ingresso?
Bentrovati anche a voi. Dopo il primo EP ci siamo trovati abbastanza impantanati nella scrittura dei nuovi pezzi. Le idee secondo noi erano buone ma quando andavamo ad eseguire i brani avevamo troppo spesso una sensazione come di scollatura, come se stessimo cercando di dire qualcosa ma in maniera inadeguata. In questa fase abbiamo pensato a un sacco di soluzioni e buttato via interi brani o passaggi. L’aggiunta della seconda chitarra è stata provvidenziale in questo senso: i chili di riff di Michele ci hanno permesso di amalgamare, collegare, intrecciare, sottolineare. Questo ha fatto sì che le cose che scrivevamo hanno iniziato a convincerci di nuovo e il songwriting stesso ha per forza di cose fatto un passo in avanti da lì in poi. In ultimo, una cosa che si è verificata ma che non era affatto scontata: lo stile chitarristico di Michele, eclettico e quasi math, si è sposato bene con quello di Diego, molto più sintetico e minimale.
Be Grave with Your Life è il vostro secondo EP. Come mai la scelta di preferire dei formati più brevi rispetto ad un full length?
Dobbiamo riconoscere di trovarci molto bene con questo formato. I dischi da 15 minuti circa ci piacciono molto anche da ascoltatori, scorre tutto senza intoppi e c’è da dire che probabilmente non saremmo comunque stati in grado di scrivere un full length senza diventare noiosi. Secondo noi si dovrebbe fare un disco sempre tenendo conto del numero di idee dato, perché nessuno vuole suonare o ascoltare intere parti di album nelle quali non succede niente.
L’EP è stato anticipato da ben due video. “Do/Don’t” tutto affidato al montaggio, mentre “Regaining Soil” è stato girato a 360°. Ci parlate di come avete scelto i due brani e come sono maturate le scelte estetiche dei due videoclip?
Non volevamo parlare del lockdown, perché ne è stato detto fin troppo, ma è inevitabile farlo per rispondervi. Avevamo un disco pronto e nessuna data di uscita, dato che non ci si stava capendo niente. Abbiamo pensato di sfruttare il periodo morto chiedendo una mano ad amici videomaker, consapevoli che anche nelle loro vite non stava succedendo un granché. Abbiamo affidato un video diverso a quattro bravi ragazzi (i rimanenti due usciranno dopo la pubblicazione dell’EP), lasciandoli liberi nella scelta del brano e delle immagini. L’unica cosa che abbiamo chiesto è stata di non complicarsi la vita con sceneggiature o storie da raccontare ma di focalizzarsi sulle immagini, sul loro potere evocativo. Edoardo e Leo sono strati davvero bravissimi e vi assicuriamo che Ivan e Andrea non saranno da meno.
Proprio in “Do/Don’t”, Diego accenna al fatto che viviamo in un epoca del post-tutto. Alla luce di questo e considerando il titolo del vostro EP c’è ancora spazio e modo per prendere con serietà qualcosa o tutto è ormai irrimediabilmente fagocitato dalle logiche post-moderne?
Si tratta di una domanda complicata. Chi siamo noi per dirlo? È ancora tempo di credere in qualcosa? E se sì, ha a che fare con le persone o con le idee? Bisogna avere più fiducia in sé stessi o negli altri? Ogni tempo ha le sue gabbie o è questa era ad essere particolarmente prigioniera? E ancora, le gabbie vanno aperte da dentro o da fuori? È eventualmente possibile svincolarsi da pose e cascami durante il processo?
L’ultimo brano, “Fear Enough”, si distacca leggermente dal resto del lavoro ed è un po’ sui generis. Anche i testi sembrano essere un pelino più intimistici. Ce ne parlate?
A conti fatti è vero, ma ci siamo accorti solo alla fine. Avevamo questa specie di ritornellone lento, aperto, malinconico. Non sapevamo bene cosa farci perché quando scrivi una parte così poi devi andare a ritroso per metterci una strofa o comunque un passaggio che ci stia bene, che ti porti lì in maniera bella. E non ci stavamo riuscendo. Quindi per gioco abbiamo provato a metterla in apertura del pezzo. L’effetto ci è subito suonato spiazzante, ci è piaciuto, lo abbiamo lasciato così. Per quanto riguarda il testo, la parte bella non è farina del nostro sacco ma un adattamento di una frase della stand-up comedian Jen Kirkman, quindi in caso chiedete a lei, noi ci abbiamo solo fatto il ricamino intorno.
L’artwork, invece, curato da Alessio Marchetti (Tutti i Colori del Buio, Rope), come si aggancia alle tematiche dell’album?
Grazie per la domanda, ci fa piacere che certe cose vengano considerate. Come per i video, cercavamo immagini evocative piuttosto che didascaliche (ed è per questo che adesso non spiegheremo la copertina, perché non c’è da spiegare, c’è solo da guardare e ascoltare al limite). Non sappiamo cosa abbia fatto Alessio ma ha azzeccato l’immaginario che cercavamo senza troppe spiegazioni da parte nostra. Probabilmente è stato a causa di un certo feeling che ci accomuna (a tal proposito, vi consigliamo di ascoltarvi l’esordio dei Rope, Crimson Youth, davvero una ventata di freschezza).
Mix e master sono stati affidati rispettivamente a Dave Curran e a Claudio Adamo. Come è ricaduta la scelta su di loro? Come vi siete trovati?
Prima di tutto due note di merito a Lorenzo e Alberto. Lorenzo Amato del Cinque Quarti Studio di Roma (oltre a suonare la chitarra nel gruppo punk più dadaista d’Italia, i Max Carnage) ci ha permesso di avere tra le mani delle riprese cristalline, permettendoci di avere molto più “gioco” nella fasi successive della lavorazione. La voce l’abbiamo fatta con Alberto Travetti, che oltre ad essere un nostro amico di vecchissima data (ha suonato per più di dieci anni con Diego negli Ouzo), è uno sciamano degli arrangiamenti vocali. Con Dave Curran ci siamo incontrati durante il Krakatoa a Bologna. Lui adesso vive e lavora come fonico in Italia (oltre che suonare con i micidiali Baratro) e la scelta di far mixare il disco da lui è stata la cosa più logica che abbiamo fatto da quando esistiamo come Six Feet Tall. Addirittura ti diciamo che sarebbe stato stupido non farlo, sapendo come tratta i suoni e intuendo che sicuramente avrebbe avuto le idee più chiare di noi riguardo come doveva suonare il disco. Claudio Adamo (dei Cani dei Portici, altro gruppo incredibile) oltre a lavorare in uno studio pazzesco, ha una sensibilità rara per quanto riguarda la melodia e le voci. Essendo questo un disco pieno di distorsioni e di stridori, abbiamo lasciato che nell’ultimo passo del processo di produzione fosse proprio lui ad occuparsi del far venire fuori le melodie nel modo giusto. Ed è stato fondamentale, perché si rischiava di affossarle completamente o al contrario di metterle troppo al centro del suono. Quindi, bravo Claudio e bravi tutti.
Tutti voi avete già altri progetti, quanto influiscono all’interno dei Six Feet Tall? E ancora, i Six Feet Tall un grosso side project di tutti voi?
L’influenza è palese. La sessione ritmica fa tanto Northwoods, ad esempio, tempi dispari, basso Unsane-oriented e pattern di batteria intricati. Le bordate di caos controllato non possono non ricordare i Die Abete, come il piacere di cantare robe sghembe ma in un certo senso “orecchiabili” è di sicuro una cosa che Diego si porta dietro dai Cayman the Animal. Tutti i gruppi iniziano come side project di qualcosa e diventano qualcos’altro a seconda di cosa succede. A noi è successo di trovarci benissimo insieme e di sentirci soddisfatti del materiale. Quindi, per tornare alla domanda: no, i Six Feet Tall non sono assolutamente un side project.
Nonostante il blocco dei concerti e una promozione che sarà quindi necessariamente monca avete comunque deciso di fare uscire l’EP. Come avete maturato questa decisione?
Ci annoiavamo. Avremmo dovuto dare una risposta più intelligente ma la verità è questa.
C’è qualche aneddoto su Be Grave with Your Life che vale la pena di raccontarci?
Se intendi la registrazione, è andato tutto liscio a dire la verità. Per gli strumenti è stato fatto un lavoro pulito e noi siamo arrivati in studio sufficientemente preparati, con le rispettive parti ben chiare in testa. Per quanto riguarda la voce, vi possiamo dire che è stata un’esperienza mistica e sensuale, ma sono cose che vanno raccontate a voce. Il giorno dopo ogni sessione non ci ricordavamo quanti pezzi avevamo fatto la sera prima. E ci fermiamo qui.
Quali gruppi hanno influenzato il vostro sound e quali album invece vi sentite di consigliarci tra le ultime uscite?
Suonerà pomposo ma pensiamo di esserci fatti influenzare da tutte le cose che abbiamo ascoltato durante la vita. Questa risposta tra l’altro ci evita l’imbarazzo del name-dropping, pratica in cui siamo scarsi perché non sappiamo mai se dobbiamo dire la verità nominando gruppi scontatissimi (tipo boh, i Fugazi, gli Unsane ma anche i Beatles) o fare i fichi e tirare fuori roba semi-sconosciuta che in realtà abbiamo ascoltato poco e male.
Per quanto riguarda le nuove uscite che ci sentiamo di consigliare, punteremmo la lente di ingrandimento su alcune band noise punk italiane con le quali sentiamo di condividere un certo non so che:
Rope: Crimson Youth;
Baratro: Terms and Conditions;
The Love Supreme: A Shade of Yellow Very Close to the Gold Album.
Menzioni speciali per Lleroy e Frana, che stanno lavorando a robe nuove.
Noi abbiamo finito, grazie per il vostro tempo, potete finire come volete.
Vorremmo finire con un ringraziamento alla redazione di GOTR, perché parlare e leggere di musica in questo modo è importante.