C’est plus facile. Chissà, forse qualche pubblicitario figlio dei presuntamente spumeggianti anni Ottanta utilizzerebbe quello slogan alla base di antichi spot-tormentone che ammorbavano l’etere delle prime città da bere, per commentare oggi la scelta di una band di modificare il proprio nome dopo anni di gloriosa carriera. E forse chissà, qualche purista contesterà la scelta di codicefiscalizzare un monicker dalle spiccate velleità culturali e sociali, rendendo così meno immediatamente intelligibili i riferimenti all’opera di Bernard Bruneteau e alla rovina che incombe sull’umana specie alle prese con il genocidio definitivo, quello che si sta autoinfliggendo nel nome di un istinto predatorio nei confronti della Natura e dedito alla sopraffazione nelle relazioni sociali.
Al di là delle eventuali perplessità legate alla forma, però, bastano pochissimi secondi di ascolto per capire che il ritorno sulle scene dei Seventh Genocide con la nuova denominazione SVNTH è tutt’altro che una sia pur minima forma di sconfessione del percorso artistico delineato dai lavori del passato o della sempre fieramente rivendicata appartenenza al movimento RABM e, ancor meno, un cedimento sul versante della qualità a cui il quartetto romano ci ha abituato fin dalle prime apparizioni in formato demo, poi più che confermate dai full length Breeze of Memories e, soprattutto, Toward Akina. Che i Nostri fossero ormai a un passo dalla fine dell’apprendistato e si stessero affacciando alla piena maturità, peraltro, era stato abbondantemente chiarito dall’EP del 2018 che, pur in presenza di un solo inedito, vanta meriti ragguardevoli per essere collocato al vertice della loro discografia (la magnifica riscrittura di una traccia come la conclusiva “Martial Eyes” vale da sola abbondantemente il prezzo del biglietto), collocandoli a pieno titolo nella fascia di eccellenza di quell’atmospheric black che ha visto per anni ai vertici una band monumento come gli Agalloch. Ma la creatura di John Haughm non è mai stata l’unica stella polare nel cielo dell’ispirazione dei SVNTH e il punto di forza di tutti i loro lavori fa leva piuttosto su un’innata propensione alle contaminazioni, da quelle che siamo abituati a riassumere con il suffisso gaze, relativamente prevedibili sotto un cielo black (pensiamo agli Alcest degli esordi), passando per significativi apporti post e prog, fino a lande relativamente poco esplorate, su queste frequenze, come certificato dalle tutt’altro che rare incursioni in territori psych o classic metal. Con simili premesse, non stupisce che l’immediatezza non rientri tra gli obiettivi artistici del quartetto, a tutto vantaggio di chi nella musica rifugge le scorciatoie del prêt-à-porter pentagrammatico e cerca invece lavori che pretendano immersioni totali. Architetture complesse e conseguenti minutaggi impegnativi sono dunque i tratti caratteristici di questo Spring in Blue, ma in nessun caso difficoltà dei tornanti e lunghezza della salita affaticano chi si avventuri nel dipanarsi di solchi che, al contrario, si dimostrano capaci di regalare splendidi panorami, nell’ora di viaggio complessiva. Il filo conduttore (nonché primo, grande pregio) del platter è tutto nell’impeccabile gestione di una tensione che riesce a spaziare senza forzature dalle spigolosità delle cavalcate telluriche a momenti di abbandono quasi contemplativo, in grado di aprire squarci lirici in cui sospensione del ritmo e propensioni melodiche alimentano una tavolozza dei colori oltremodo diversificata. La cartina di tornasole di un approccio a questo punto discretamente eretico all’universo black emerge prepotentemente nella prova al microfono del vocalist Rodolfo Ciuffo che, per quanto formalmente alle prese con uno scream abrasivamente appuntito di diretta filiazione core, punta su un effetto “liquido” che inserisca la voce nel flusso degli strumenti, piuttosto che esaltarne le potenzialità di controcanto a squarciare un tappeto armonico. Anche il capitolo “collaborazioni & ospiti”, peraltro, fornisce spunti di assoluto interesse e rilievo, a cominciare dalla registrazione presso lo studio newyorkese Menegroth: The Thousand Caves sotto la regia di quel Colin Marston che molti riconosceranno tra i maestri della Warr guitar e che qui possiamo più che apprezzare in “Chaos Spiral in Reverse”, senza dimenticare il contributo di Marco Soellner al microfono (Klimt 1918) e Josiah Babcock (ex Uada) alle pelli. Dopo l’ottima partenza affidata alla strumentale “Who Is the Dreamer?”, delizioso gioiellino sospeso tra doom e post che avrebbe forse meritato qualcosa in più in termini di minutaggio, i SVNTH stupiscono anche nell’avvio della successiva “Erasing Gods’ Towers”, impreziosito da campi lunghi di stampo cinematografico tra sabbie arroventate, sagome di cactus e colonne sonore di morriconiana memoria, ma non sono meno pirotecnici né l’incipit floydiano di “Parallel Layers” (come non sentire un’eco tutt’altro che lontana di una “Great Gig in the Sky”, sia pure al netto dell’approdo al divino gorgheggio di Clare Torry?), né l’inserto tra indie rock e coralità settantiana che rallenta la macchina da guerra in azione in “Wings of the Ark”. Un turbine indemoniato apre la già citata “Chaos Spiral in Reverse”, ma anche in questo caso il cambio di registro è in agguato, tra un riff di nobile e antico lignaggio hard rock e suggestioni ambient che rasserenano l’atmosfera prima del ritorno di una tempesta che si placa infine nello sciabordio di onde cosmic/space arrivate da chissà dove con il loro carico di struggente malinconia. Manca, a questo punto, il gran cimento nell’epopea prog e il piatto è servito con la conclusiva “Sons of Melancholia”, autentica suite dalle infinite sfaccettature a cui possono abbeverarsi con pari beneficio gli assetati di una mezza dozzina di generi, dato che, al termine di una prima parte abbastanza canonicamente declinata, il pezzo esplode letteralmente tra un assolo monstre di scuola settantiana con tanto di accompagnamento acustico a supporto e un’inattesa quanto riuscita virata verso un doom con vista finanche sui rallentamenti funeral, opportunamente sottolineati dal cantato di Ciuffo che punta opportunamente sul growl per far calare il sipario su un viaggio emozionante.
Distorsioni, velocità e atmosfere sinistre come la tradizione black impone ma anche delicate cesellature da cui filtra una luce che suggerisce possibili traiettorie in grado di mettere in discussione la dittatura della materia, Spring in Blue è un album che non ha paura di affrontare le colonne d’Ercole riconosciute del genere e di spingersi molto oltre, in un mare aperto in cui si rischia forse di perdere qualche devozione tra chi vive la propria nicchia come somma di canoni ma con la più che concreta prospettiva di essere intercettati dai radar di chi le sonda a largo spettro, le metal acque. Seventh Genocide o SVNTH il risultato non cambia, solo applausi, per i lavori di questi ragazzi.
(Transcending Records, 2020)
1. Who Is the Dreamer
2. Erasing Gods’ Eraser
3. Parallel Lawyers
4. Wings of the Ark
5. Chaos Spiral in Reverse
6. Sons of Melancholia