Oggi portiamo l’altra metà dei macrotemi che amo trattare ovvero il rap nelle sue forme meno convenzionali.
Faremo qualche chiacchiera con Zona mc , rapper e professore di Rimini, dobbiamo però prima delineare il contesto artistico dove Stefano decide di diventare Zona e soprattutto la zona della quale parliamo : il famigerato rap italiano , la riviera romagnola il luogo. Ad inizio 2000 quando iniziai ad avvicinarmi al genere , per stereotipi e dogmi culturali mixati alla chiusura mentale della vecchia scuola che somigliava a tratti ad una setta era impensabile vedere quello che vediamo oggi. Sappiamo per certo che il presente è figlio del passato ma come diceva la canzone “Cos’è stato?” (Morgan – le ragioni delle pioggie). Se da un lato la deriva americana ha preso la piega maggiore quindi tutta l’estetica gangsta sta spadroneggiando il linguaggio di questo genere ed esasperando la questione di quella che pare essere un emergenza sociale , trasversalmente come insegna la storia si sono anche apertenuove strade e visioni. Zona Mc ne ha una sua , attenzione però, non ci troviamo di fronte a un primo pelo che ha deciso di fare quel che fa l’altro ieri pomeriggio ma bensì ad un artista che ha una sua storia e i percorsi artistici per chi scrive non si delineano solo in popolarità ma anche in quanto si è capaci, specie in contesti provinciali e con spazi risicati , di essere voci diverse. In questo, aldilà dei miei gusti personali , Zona ne è stato capace ed è giusto riconoscerlo . Il nostro uomo nel mirino arriva da una notevole ultima uscita per Trovarobato , dove ha raccontato la resistenza rappando “storia della rapubblica 1943-1953 : i veri anni di piombo” ma ha al suo attivo 10 album che potete scaricare a sbafo qua : Musica (weebly.com) . Ha pure scritto un libro dal titolo “Le origini del sovranismo”.
Ora lo incalzo telematicamente e vediamo che succede: Zona è il nome che hai scelto per rivendicare una territorialità. Se ci pensiamo però sei un apolide nella terra dell’hip hop e il tuo percorso artistico ha una certa longevità. Com’è stato questo viaggio?
Di sicuro come dici sono da tempo un apolide o comunque un nomade ormai slegato e lontano dalla terra dell’HipHop: ma tutto è iniziato da lì.
Rappo e scrivo rime da quando ero bambino: alle elementari e medie ho cominciato con il pop-rap (da Jovanotti alle prime rime in inglese dei 5IVE: pensa che alle medie avevo i capelli con le punte come uno di loro ahahah), poi nell’adolescenza ho scoperto la cultura e la scena HipHop, sentendomi subito pienamente dentro la prima e tentando con scarso successo di emergere nella seconda; il massimo che ho ottenuto è stata una recensione negativa di un mio demo su AL: giustamente, perché negli anni del liceo avevo una fotta infinita ma ero ancora musicalmente molto acerbo.
Infine il mio rap ha cominciato a diventare sempre più concettuale dopo la scoperta della filosofia e più sperimentale quando negli anni universitari ho conosciuto i Uochi Toki, prima musicalmente, diventandone un fan sfegatato, e poi di persona, seguendoli nel loro tour e scoprendo anche i generi elettronici più estremi degli anni ’00, in particolare la Breakcore: è così che sono approdato a nuovi generi ibridi come quello che chiamavo “BreakHop” o il “rap filosofico” del mio album Ananke.
In quel calderone sicuramente c’è stato anche del nonnismo, del bullismo ecc. ma d’altra parte ci si sentiva parte di qualcosa di grande e internazionale: il rap ti stimolava e aiutava a imparare le lingue straniere e per la sua origine afroamericana e sottoproletaria era aperto anche e proprio verso i più poveri e sfortunati come spesso gli immigrati (non seguo molto l’attualità ma anche solo il fatto che in questi giorni tutti parlino di Ghali, la cui famiglia è tunisina, mi sembra confermare questa apertura dell’HipHop).
Quindi, anche se sulla base delle mie aspettative iniziali il mio rapporto con l’HipHop si può considerare tutto sommato deludente, ora ne capisco le cause, quindi lo accetto e amo ricordarne i lati positivi: in fondo è naturale che sia andata così, essendo un nuovo seme non potevo non staccarmi dall’albero che a sua volta era un seme caduto dai rami della black music e dell’elettronica, che a loro volta ecc.
Hai 10 album in download gratuito. Album dove hai trattato vari argomenti, come ad esempio l’economia in “Porconomia” o l’ultimo sulla resistenza . Come scegli i concept dei tuoi album?
All’inizio della mia fase diciamo più sperimentale (quella in cui ho pubblicato i miei ultimi 10 album, preceduti da una decina di demo) non facevo né volevo fare concept album, operazione che mi sembrava troppo limitante, in quanto sistematica e macchinosa (a parte Ananke che, non esponendo le mie idee ma solo quelle dei filosofi, è invece il mio album più sistematico), per questo in un mio cd di fine anni ’00, Breakhop, ho addirittura messo come sottotitolo “non è un concept ma ha qualche linea guida”; l’idea derivava dalle massime nietzschiane che amavo di più, come: “Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà di sistema è una mancanza di onestà” (Crepuscolo degli idoli).
Certo, normalmente un concept musicale non richiede un sistema nel senso nietzschiano, ma componendo solo dischi a sfondo filosofico per me era proprio così!
Il mio primo concept vero e proprio è stato quindi Porconomia che, come l’unico libro che ho (auto)pubblicato finora (Le origini del sovranismo), derivava dalla mia convinzione di avere una sorta di comprensione sistematica di certe questioni economiche e politiche: convinzione in parte illusoria, ovviamente, ma forse, un po’ come ho sempre serbato un cuore HipHop anche quando lo negavo, similmente ho sempre serbato un’ambizione sistematica anche quando nietzschiavo e deleuzavo volendo far solo rizomi…
In sintesi, i miei concept nascono dai miei studi da autodidatta: quando uno studio comincia a formare un quadro che mi sembra completo di solito lo traduco in rima ma poi vado oltre e inizio altri studi e così via.
Scusa se le mie risposte finiscono tutte con delle spirali ma è il mio concept! ahahah
Quanto è necessario secondo te oggi , nel rap che in alcune derivazioni ormai è un fatto puramente estetico e non piu’ espressivo, provare a veicolare un messaggio come il tuo che in qualche modo è didattico?
Il rap può essere uno strumento didattico ma ovviamente è davvero rap quando non nasce solo da quello (e, viceversa, nemmeno la didattica può essere solo rap): ad es. è difficile dire in che senso un beat possa diventare pura didattica (intendo senza scomparire diventando un mero metronomo – che non a caso da più di 10 anni è stato il mio unico accompagnamento nei freestyle).
Ma a prescindere dalla musica come caso particolare, credo che più in generale la vera didattica sia quella che veicola anche (tramite) la propria passione; prendi il caso di Barbero: con il suo pathos, il suo ritmo e il suo carisma, misti alla sua ovvia competenza accademica, raggiunge anche coloro che non riescono a reggere il tono più lento e pesante di molti altri specialisti.
Il suo esempio dimostra quindi che c’era un grande bisogno di divulgazione storica, intesa con un certo ritmo (prima del suo successo non avrei mai pensato che così tanta gente volesse scoprire il passato ascoltando ore intere di storia!): e in fondo il rap è la musica con i testi più lunghi e ritmati, quindi si presta molto bene a narrare la storia (come dimostra la fama del musical Hamilton di Lin Miranda o la bellissima strofa di R.A. the Rugged Man in Uncommon valor).
Il mio rap non nasce solo per essere didattico: nasce perché mi piace farlo e perché spesso mi sento in dovere di dire certe cose; e forse, quando piace a qualcuno, è proprio perché non è solo didattico e trasmette con il suo ritmo quella passione intellettuale, politica ecc.
Tra l’altro, se il fine è raggiungere i più giovani, ha forse più senso un’operazione come quella di Classic Sheee, il quale mette in rima narrazioni storiche e filosofiche (ad es. ha fatto un bel ciclo sulle vite degli imperatori romani) anche su ritmi trap.
Detto ciò, il vero studio è un’altra cosa e io stesso riservo la vera didattica per gli studenti in classe, dove il rap arriva solo raramente, alla festa finale o come spezia ben dosata per insaporire qualche lezione; fuori da scuola invece ho sempre accettato di non arrivare a tutti e quindi per ora non so dirti se il rap può davvero generare nuove invasioni “barberiche”; ma di certo ci proverò!
Ho letto in una delle tue interviste , che parli di un vuoto nel programma scolastico che ti ha spinto a scrivere l’ultimo disco. Mi pareva un concetto interessante anche per capire come a scuola si scelgono gli argomenti da trattare durante l’anno. Ti va di parlarne?
Certo, ma in realtà ho forse semplificato troppo, poiché l’insegnamento è libero, quindi non esistono programmi scolastici rigidi o limiti insormontabili, in quanto ogni docente può e deve costruire il suo programma ogni anno; nel farlo deve considerare il livello e il programma svolto dalla classe prima del suo arrivo, così come le indicazioni fornite dal Ministero al fine di evitare che alcuni temi fondamentali vengano trascurati e armonizzare i programmi in vista dell’esame di Stato finale; ma ovviamente si tratta di indicazioni che, diversamente dai programmi del ventennio fascista, non sono troppo stringenti o comunque non dovrebbero esserlo.
Nessuno può obbligarci a omettere qualcosa in classe (per capirci, nemmeno una cosa lontana dalla filosofia come il rap): quando accadrà, sarà la fine definitiva della scuola e quindi della democrazia.
Resta il fatto che a causa di certe prassi consolidate la storia degli ultimi 70 anni viene spiegata spesso alla fine della quinta, quindi in poco tempo e sotto la pressione dell’esame e questo, sommato alla rabbia per la propaganda anticomunista e antipartigiana che spesso ho trovato nell’editoria italiana, mi ha fatto pensare che potesse servire un album sulla storia italiana raccontata dal punto di vista dei lavoratori e dei partigiani.
Se invece può interessarti sapere come cerco di aggirare il problema di questo “vuoto” a scuola, negli ultimi anni ho utilizzato le ore di Educazione Civica che siamo obbligati a fare (33 ore, ogni anno, divise come si vuole tra i vari docenti, scelta a mio parere troppo dispersiva, soprattutto considerando il fatto che la storia e la filosofia sono già per loro natura una forma di educazione civica…) proprio per parlare della storia contemporanea su 3 livelli, dal nazionale al globale: in 3° superiore spiego la Resistenza e la Costituzione, in 4° la storia dell’unificazione europea, dalla CECA al PNRR e in 5° quella dell’ONU e della guerra fredda; negli ultimi anni ho dedicato delle ore anche alla spiegazione delle guerre in corso, della storia dell’ambientalismo e ho gestito incontri con autori e conferenze sugli anni di piombo.
E quando ciò non basta, fuori da scuola alcuni studenti scoprono anche i miei album.
Insomma, la scuola non è un monolite del passato: è ciò che ne fanno i docenti e gli studenti (e, ahimé, le continue e spesso discutibili riforme dei Governi).
Nei tuoi live è sempre presente il freestyle , che rapporto hai con questa arcaica disciplina rap?
Per me il rap dal vivo è soprattutto freestyle: ricordo una jam (B-boy event) a Bologna in cui ESA rappò un intero pomeriggio, quasi di continuo, su qualsiasi cosa che gli veniva in mente; o Danno, i cui freestyle persino nelle sfide erano più simili a un discorso argomentato che alle solite punchline con giochetti di parole; o Moddi, che credo sia il freestyler più fluido e naturale dello stivale.
E ricordo di aver sempre improvvisato: ho cassette piene di freestyle che da adolescente concepivo anche come esercizi privati in vista delle gare pubbliche, tipo Goku e Crilin dal Genio delle tartarughe.
Una volta ho persino vinto una sfida amatoriale sotto i portici a Rimini (ma forse solo perché si vinceva per acclamazione e mi ero portato più amici ahahah) ma tempo dopo ho fallito alle selezioni del 2thebeat, una delle sfide più note, e alla fine ho smesso di andarci, forse anche perché ero già assorbito dalla sperimentazione sopra citata o viceversa.
In fondo il “free-style” dovrebbe essere uno stile più libero di quello scritto: prima di tutto uno stile libero dallo stesso scritto, ossia senza copione, improvvisato.
In questo senso un rapper può avere un solo stile (la forma) sia nei testi che nei freestyle ma nei secondi si sente che gli argomenti (il contenuto) sono legati al contesto, ossia che in quel caso il rap nasce sul momento.
Ma essendo improvvisato, lo stile potrebbe essere libero non solo sul piano del contenuto ma anche su quello formale: e in questo senso le sfide tra rapper sono la forma di freestyle meno “free”, in quanto rigidamente incapsulate nei ritmi, nei tempi e nei modi previsti appunto dalla sfida (e anche nei freestyle solisti gli mc mantengono solitamente lo stesso stile: anzi, in media gli mc cercano di fare freestyle tendendo proprio allo stile dei propri brani) – con le ovvie eccezioni citate, come il Danno.
Alla fine del mio percorso universitario ho quindi iniziato a far impazzire i miei freestyle, cercando di improvvisare in totale libertà, oltre ogni limite formale, ossia parlando, cambiando tono, ritmo e punti di vista, dialogando col pubblico o fermando passanti ecc. tentando quindi di fare nell’ambito del freestyle qualcosa di simile a quello che i Uochi Toki stavano facendo nel rap scritto, superando ogni dottrina dell’HipHop in un senso opposto a quello del rap commerciale (che è certo libero dalla dottrina HH ma è incatenato a quella economica).
E, in fondo, finendo per usare il rap come una scusa, una copertura per tenere lunghi monologhi talvolta più simili a comizi, altrimenti impensabili in certi contesti festosi!
Se hai voglia dicci due parole sul tuo libro “Le origini del sovranismo”.
Anni fa ho cominciato per la prima volta a immaginare un intreccio tra i rami del sapere che conoscevo meglio e ho quindi steso una bozza di un libro diviso in due parti: una storico-filosofica e una economico-politica.
Nel 2018, convinto dell’urgenza del mio messaggio politico, ho finito di scrivere la seconda parte ma nessun editore ha voluto pubblicarla per intero (anche perché era diventata un mattone lunghissimo, quasi come queste mie risposte ahahah), così l’ho pubblicata a mie spese.
In quegli anni nel dibattito pubblico dominava l’idea che ogni forma di “sovranismo” (quindi gran parte dell’euroscetticismo, keynesismo, critica alla NATO ecc.) era destinato ad alimentare la destra; per me non era così e ho scritto quel libro per spiegare che ad es. nella storia italiana era stato anche e soprattutto il comunismo ad essere euroscettico, anti-NATO ecc.
Forse è stato un discorso troppo astratto e quindi poco utile sul piano politico (di certo fino a quando il comunismo non perderà lo stigma a cui è – in parte a ragione ma spesso a torto – associato) ma credo rimanga una buona sintesi di alcuni problemi italiani ed europei che sono tornati al centro dell’agenda politica dopo la pausa della pandemia.
L’austerità, ad es., non è stato un errore contingente o una moda temporanea che ha spostato la politica a destra nei primi anni ‘10 ma l’ovvia conseguenza dell’ordoliberalismo dei trattati europei in un’unione monetaria incompleta, ossia senza unione fiscale – incompletezza che spiego anche nel programma di educazione civica sopra citato, quindi… hai appena provato di nuovo la noia della scuola! ahahah