
Jad e Tarek Atoui sono due fratelli dediti alle sperimentazioni elettroacustiche. In questa occasione, sancita dall’onnipresente Ruptured Records di Ziad Nawfal e Fadi Tabbal che dal 2008 monopolizza la scena musicale locale, ritroviamo solo il primo, che, insieme al collettivo SANAM (Anthony Sahyoun e Sandy Chamoun) autentico pilastro della tradizione rock di Beirut, ha deciso di realizzare un lavoro interessantissimo come questo Ghadr. Il disco è una testimonianza a cui guardare con molta attenzione, soprattutto per provare a entrare in contatto diretto con quella che è la sua vena sperimentale più libera, quella cioè che ha sancito, e caratterizzato, la nascita del loro progetto.
C’è un mondo intero nei cinque brani che costituiscono Ghadr (traducibile a grandi linee con il termine “tradimento”) esperimento sonoro realizzato sotto le bombe che colpivano ripetutamente il territorio di una terra, come quella libanese, costantemente inquieta. Un album che guarda, contemporaneamente, sia alla tradizione (etnica) che alla modernità (elettronica), in un incontro – scontro generazionale che ha dato vita ad un disco intrigante, che stimola i nostri sensi e la nostra voglia di andare a scoprire che cosa accade in quei territori in cui vivere è una scommessa quotidiana, che spesso ci vede sconfitti. Un album malinconico (e non poteva essere altrimenti) che documenta un momento storico che pare non voler cambiare il proprio corso autodistruttivo. Un album che trasuda emozioni violente, ma sotto forma di suadenti melodie che ipnotizzano prima di rilasciare il loro carico di morte. È la rabbia dunque il sentimento prevalente. Una rabbia esacerbata in un contesto sonoro atipico, del tutto privo di quell’affinità sonora che ci si potrebbe aspettare, perché quella del trio composto da Atoui, Sahyoun e Chamoun è una proposta che invita a guardare senza pregiudizi in tutte le direzioni possibili, senza restare legati a soluzioni troppo facili e troppo immediate. Da un punto di vista concettuale ogni brano ha una sua fonte di ispirazione perfettamente individuabile, che gli stessi artisti non faticano a spiegare: “Taha Layl” interpreta una canzone popolare beduina. “Bihali” è basato su una poesia del X secolo di Abou Firas Al-Hamdani. “Al Moulatham” cita un post di Instagram di Yousef Al-Domouky sulla guerra a Gaza. “Al-Samaa” utilizza un testo del poeta libanese contemporaneo Paul Chaoul. Ghadr è quindi un esempio di come si possa intendere la musica con occhi non convenzionali, che possano portare a un qualcosa di differente anche in ambito musicale, e non solo sui territori di guerra.
Un disco pessimista? Probabilmente, ma solo in parte. C’è un ampio spazio per la tradizione (e quindi per la speranza) che sentiamo come fonte di un cambiamento, al momento ancora sopito, ma che sta montando, in modo viscerale e istintivo. Siamo in una parte di mondo che non sembra poter trovare la pace, nemmeno quella interiore. Non poteva uscirne che un album di grande intensità emotiva come Ghadr in cui i suoni stratificati e profondi che si rincorrono, apparentemente senza criterio, vanno in saturazione, sovrapponendosi e fondendosi. Suoni e rumori che pensiamo possano essere quelli stessi che riescono a rappresentare la naturale e diretta sublimazione di tutti quei sentimenti contrastanti e travolgenti che solo in zone di guerra possiamo trovare. Laddove tutto è tragedia, e non pare esistere un domani, l’unica certezza è che non manca la voglia di fare musica, sempre e comunque.
(Ruptured Records, 2025)
1. Tahal Layl
2. Bihali
3. Al-Moulatham
4. Hayawanon Ghader
5. Al-Samaa wal Nabaat wal Ghaabaat wal Zaytoun wal Laymoun wal Lawz wal Tin


