La prima giornata del Frantic Fest 2018 – raccontatavi qui – ha visto alternarsi sui palchi band blasonate ma tutto sommato lontane dal metal, per una scaletta eterogenea e comprendente anche esempi di rara classe. Quella successiva, invece, prende una piega diversa già all’ora di pranzo: sullo small stage troviamo i Trono, due ragazzi che, tra il serio e il faceto, reinterpretano brani metal in acustico tenendo compagnia ai campeggiatori intenti a svuotare la cambusa del bar. Simpatico rimedio contro delle temperature tremende che ci accompagneranno per tutta questa seconda giornata, per ironia della sorte fissata per venerdì 17. La scaletta prevede una vera e propria maratona di legnate: tra gli assalti frontali di Bölzer, Hideous Divinity e Dehuman, le sferragliate di Hirax e Violentor e le oscenità di Sadistic Intent e Grave Desecrator, agli headliner Enslaved è praticamente toccato il ruolo di gentlemen. Poco male, perché anche questa tranche, sebbene stremante, si rivelerà memorabile. Ve la raccontiamo in questo articolo. Foto a cura di Benedetta Gaiani.
Frantic Fest 2018
Tikitaka Village, Francavilla al Mare (CH)
Day 2 – 17/08/2018
Sono le 18.00 e fa un caldo infernale quando i VIOLENTOR aprono i giochi sullo small stage con la delicatezza di un bobcat. Il trio toscano è dedito a un thrash metal ignorante e caciarone, tutto battle jacket e whisky alla mano, più che adatto a rompere (o sciogliere) il ghiaccio. I brani, tiratissimi e senza respiro, nei quali fanno capolino sentori heavy e death, scaldano un pubblico che si dimostra già carico a dovere. Ed è ancora ora di old school, stavolta anche anagraficamente, dato che sul main stage fanno capolino gli HIRAX. Eroi della scena speed/thrash californiana degli anni ’80, i Nostri vengono accolti da un considerevole sostegno nonostante sia ancora pieno pomeriggio, segno che molti avventori attendevano proprio questa esibizione. La band dà del suo meglio, è precisa ed energica e palesa grande esperienza. Certo, il genere è quello che è (è stato quello che è, e sarà quello che è), ma la botta di vita del carismatico frontman Katon De Pena riesce a coinvolgere anche i più scettici: tra meno di un mese spegnerà cinquantacinque candeline, ma è lì a saltellare da una parte all’altra del palco con gli occhi sbarrati, rivolgendosi continuamente al pubblico con l’appellativo di “brothers and sisters”, commentando con sincera attitudine quanto sia bello trovarsi dall’altra parte del mondo a fare baldoria con gente che condivide la tua stessa passione. Insomma, impossibile non volergli bene. Sceso dal palco si occuperà anche del DJ set conclusivo della serata: personaggio numero uno del fest, senza se e senza ma.
Senza alcun accenno di pausa, sullo small stage i toni si inaspriscono con i GRAVE DESECRATOR. I brasiliani, anche loro discreti personaggi, si presentano sul palco con un paio di bare a fare da scenografia al loro black/death metal infernale e blasfemo, con brani ancora una volta tiratissimi e senza fronzoli, arricchiti da qualche passaggio heavy. Anche qui niente di nuovo sotto il sole, ma il sudore speso e una punta di nostalgico face painting ce li fa apprezzare senza troppi sforzi, grazie anche a un interessante scambio linguistico italiano-portoghese a tema bestemmie. A proseguire il taglio appena aperto arrivano i SADISTIC INTENT, nome di assoluto culto nella scena death metal mondiale. I californiani macinano a testa bassa un set cupo, tra blast beat feroci e rallentamenti catacombali, con una scaletta che spazia dagli esordi (“Impending Doom” dall’omonimo EP del 1990) agli ultimi lavori (“Numbered With The Dead” dallo split con i Pentacle datato 2016) per un risultato veramente sinistro e maligno. Nonostante la poca intellegibilità delle voci di Bay Cortez, lievemente sotto nel mix, la band mette a segno uno show validissimo, coerentemente al valore nome che porta.
E restiamo in tema death metal, anche se di ben altro tipo, con i DEHUMAN, che si avvalgono di una posizione più vantaggiosa del previsto in scaletta (avrebbero dovuto esibirsi dopo i Violentor) a causa di un ritardo aereo, prontamente gestito dall’organizzazione con degli opportuni ritocchi agli orari della serata. Il pubblico è già rodato, dunque, quando il quartetto belga mastica i trenta minuti a propria disposizione con un death moderno e tecnico quanto basta, che non si perde in onanismi ma accenta il proprio stile su dinamiche molto espressive, grazie anche alle vocals solenni dello schuldineriano Andrea Vissol. A dispetto della giovane età i Nostri portano a casa una performance ineccepibile dal punto di vista tecnico – spicca in questo senso il funambolico batterista Laye Louhenapessy – e stilistico, dimostrando un’ottima tenuta di palco, anche di fronte ad alcuni imprevisti tecnici che li hanno costretti ad alcune interruzioni. Tra le migliori scoperte del festival. Sono circa le 22.00 e la scaletta verte verso la sua parte più calda, con una tripletta conclusiva mozzafiato.
Gran parte dell’hype della delegazione di GOTR convogliava, infatti, nell’esibizione dei BÖLZER. A discapito di una discografia relativamente breve (un full length, due EP e un demo) il duo svizzero è entrato a far parte del gotha dell’underground estremo europeo grazie a un suono e a uno stile unici, indefinibili ma riconoscibilissimi. La curiosità di tastare con mano la faccenda era tanta, in particolar modo considerando la line-up sui generis della band, che vede i tamburi degli abissi di Fabian Wyrsch come unico sostegno del neanderthaliano Okoi Thierry Jones, alle prese con un riffing maestoso, orchestrale, apoteotico. Ecco, tutto questo in sede live non solo non perde un’oncia di spessore, ma anzi ne guadagna in coinvolgimento e in enfasi. Ciò che è udibile su disco è fedelmente riprodotto: la caratteristica dieci corde di Jones da sola è un’orchestra del male; lui in posa solenne pare minacciare gli dei con la sua voce enorme, che in brani come “The Archer” si manifesta anche con un pulito del tutto sgraziato ma dannatamente viscerale. La scaletta pesca da tutte le uscite della band, persino dal demo d’esordio Roman Acupunture (l’iniziale “Zeus / Seducer Of Hearts”), riservando lo spazio centrale a Hero, fra cui solenne title-track, per concludere con una “Entranced By The Wolfshook” da pelle d’oca. Hype soddisfatto: l’ora trascorsa con il duo svizzero sarà tra gli highlights del festival, per GOTR come per gran parte del pubblico.
Metabolizziamo a stento quanto accaduto, mentre sentiamo una trivella scuotere lo small stage: è Giulio Galati degli HIDEOUS DIVINITY, alle prese con un breve linecheck appena prima di iniziare la propria performance. Chi scrive aveva particolarmente apprezzato Adveniens, ultima fatica del quintetto romano uscita lo scorso anno, un concentrato di death metal dall’altissimo tasso tecnico composto con grande gusto e molto ben prodotto. E proprio su quest’album, che pare stia portando tanta fortuna alla band (da poco rientrata da un tour in Canada, per l’appunto), è basata la scaletta del loro set previsto per il Frantic. L’iniziale “Ages Die” è un brano d’apertura ideale, che lascia la band misurarsi in quelle che sono le caratteristiche del proprio sound: approccio brutale, batteria schizzata, riffing scomposto che non rinuncia né alla cattiveria né alla melodia. Ma i vari momenti del brano, che rasenta i sette minuti, fungono anche da vetrina per lo show dei Nostri, che sul palco hanno la presenza scenica di un macigno. Gran parte del merito è, in questo senso, del frontman Enrico Di Lorenzo, che oltre a un growl definito ed espressivo mette in gioco il proprio carisma dialogando e scherzando con il pubblico, incitandolo e coinvolgendolo. Così scivolano via gli altri “calci in bocca alla romana” (parole sue) come “Angel Of Revolution”, “When Flesh Unfolds” e una formidabile “Passages”, vere schegge impazzite che anche dal vivo sono rese in tutta la propria intensità grazie a musicisti dal tasso tecnico eufemisticamente invidiabile, con suoni decisamente azzeccati. Lo small stage è stipato di gente che pare non avvertire il minimo segno di stanchezza, un giusto interscambio nei confronti di una band che pare essere particolarmente in forma e presa bene.
Noi, in realtà, un po’ di stanchezza iniziamo a sentirla, ma facciamo di tutto per accaparrarci le prime file per una delle band più attese dell’intero fest: gli ENSLAVED. Il palco è arricchito da scenografie minimali che riprendono l’artwork dell’ultimo lavoro discografico dei norvegesi – E, uscito lo scorso anno – coprendo gli amplificatori e proiettandoci nell’universo mitico e mistico su cui i norvegesi hanno costruito un’intera carriera. Quando la band sale sul palco, poco prima di mezzanotte, ci catapulta nel medesimo universo con i propri suoni eleganti e atmosferici, di cui purtroppo non possiamo godere appieno a causa di un bilanciamento un po’ particolare delle frequenze, propendente in maniera a nostro parere eccessiva sulle basse, quanto di meno indicato ci sia per la band in questione. In ogni caso, Ivar Bjørnson e soci sono carichi e piazzano uno spettacolo da veri professionisti. Lodevole la performance dei due innesti più recenti: il giovane tastierista Håkon Vinje, impegnato anche in vocals angeliche che fanno da controcanto al vichingo Grutle Kjellson, talvolta perse nel mix ma eseguite con grande perizia; al suo fianco il batterista Iver Sandøy, entrato in formazione quest’anno come session man live ma già collaboratore della band in passato (suoi alcuni effetti, cori e percussioni negli ultimi tre full length), che pare essersi integrato alla perfezione nelle dinamiche del combo, partecipando anche ai cori. Data la lunghezza media dei brani, abbastanza sostenuta, la scaletta ne contiene pochi, tratti esclusivamente da E e da Frost, super classico della band. Il dato è curioso, non solo perché sono ben ventiquattro gli anni che dividono i due dischi, ma perché in questo lasso di tempo la band ha cambiato volto e pelle, passando dalla ferocia black/viking degli esordi (comunque non priva di spunti ricercati) al suono moderno, una sorta di progressive metal epico ed estremo, invero decisamente personale. Ebbene, nonostante queste differenze la scaletta appare straordinariamente coerente: “Gylfaginning”, “Wotan” e “Isoders Dronning” (quest’ultima suonata dal vivo per la prima volta in Italia) si intersecano alle nuove “Storm Son” e “Sacred Horse” come in un puzzle, componente infine l’immagine di una band dalle capacità compositive ed espressive enormi. Come è comprensibile, il pubblico ha riservato un calore particolare proprio ai brani tratti da Frost, ma l’esibizione dei Nostri ha coinvolto appieno in ogni sua sfumatura, come si addice a una consociazione di veri professionisti. Tra un brano e l’altro Kjellson abbatte questa barriera di serietà dialogando parecchio con il pubblico, incitandolo, scherzando con gli altri musicisti e arrivando a sedare sul nascere un litigio fra le prime file. Il fatto che questi (ex-) ragazzi abbiano vissuto il periodo dei tormenti giovanili e ne siano usciti da navigati professionisti fa riflettere sugli strani risvolti che una carriera musicale può nascondere, in particolar modo quando riesci nell’impresa di stravolgere senza snaturare, di reinventarsi senza perdersi: in questo gli Enslaved sono e sono stati dei veri maestri.
A fine serata c’è chi, giustamente, si riposa ai tavoli tra le birre, chi fa un giretto agli stand del merch, chi non è pago della giornata massacrante e continua a far baldoria durante il DJ set di Katon degli Hirax. Noi proviamo a fare un po’ di tutto, ma alla fine ci rendiamo conto che l’unica decisione saggia è quella di andare a dormire: vogliamo restare in forze per l’ultima giornata, probabilmente quella più varia.