Ogni volta che arriva un nuovo disco da ascoltare, la prima cosa che faccio è leggere il comunicato che l’etichetta discografica allega a mo’ di presentazione. Parole che per un recensore possono essere comode e d’aiuto, soprattutto quando ci si trova ad affrontare l’ascolto di un debutto, oppure di una band sconosciuta ai più. Nel caso degli Odious Spirit si citano come modelli di riferimento due bands totalmente agli antipodi tra loro: Immolation e Voivod. Tant’è che leggendoli, questi nomi, mi son subito detto: avranno sbagliato, capita. Perché non riuscivo a capire come il death cadenzato, soffocante, oleoso dei primi, potesse sposarsi con la costante evoluzione mutaforma della band del Québec. Invece The Treason of Consciousness, questo il titolo del debutto (e che debutto, ve lo dico subito: album extreme metal dell’anno!) riesce a fare questo mix e, detta come va detta, andare semplicemente oltre. La band è composta dal leader James Oskarbski (newyorchese, già con Execrable e 8 Hour Animal) che si occupa di tutte le chitarre (che paiono decine data l’impressionante mole di ritmiche e soliste) e voce. Con lui ci sono Cullen Gallagher al basso e Daniel Torgal alla batteria, una sezione ritmica devastante che non perde un colpo manco se gli spari alle gambe. Come già detto, considero questo disco il miglior album estremo uscito fino ad ora; non c’è bisogno di mettere etichette quando la musica raggiunge simili apici di perfezione. Il trio riesce a condensare in cinque canzoni tutto lo scibile della musica dura, con una tecnica che sicuramente ha poco da spartire con la razza umana: questi sono alieni che hanno deciso di scendere sulla nostra palla di terra, donandoci la luce della follia eterna.
“Long Stretch of Bleeding Light” è un dirompente biglietto da visita e già le gambe iniziano a traballare. Una prima parte che possiamo azzardare a definire tranquilla lascia poi il campo a cavalcate imperiose, gli strumenti come missili atomici che colpiscono senza sosta. Il growl di Oskarbski pare un ruggito infernale, una bestia inferocita che sfiora il delirio vocale del black moderno. La successiva “The Hissing Pyre”, più di undici minuti di durata – praticamente un’odissea di libidinoso caos – è una colata lavica. Ascoltare questo brano a tutto volume è stare seduti dietro ad una turbina di jet e farsi cancellare dal mondo. In questa traccia ci sono nascoste idee per altri tre dischi, è un brano espandibile, un testa dell’Idra di Lerna che non smette di decapitarsi. Quello che lascia basiti, quasi scioccati, è il constatare che una durata così elevata vola via in un lampo, uno shot di liquore antimaterico. A metà album arriva “Illuminations”, un incisivo intermezzo di vocals appena accennate, con lunghe code noise, distorsioni lasciate libere di correre ovunque, note ridondanti, mille palline da flipper in costante lotta per la sopravvivenza. Un modo ironico di smorzare i toni, perché di fatto la band, usando altri registri, ci consegna un brano ugualmente disturbante. In mezzo a tutto questa fine del mondo, arriva un brano che è quasi un “singolo”, data la sua veste meno imponente e sontuosa: “Gnawing the Fabric of Time” è infatti la canzone più diretta del lotto, un brano death metal diligente e letale, con una coda finale che è uno spoiler su quello che avverrà da lì a poco. Perché il botto arriva con l’ultima traccia, “Unbending Follicle, Unending Blight”: follia pura, un caracollare verso il baratro, dove le velocità raggiunte sono illegali, melodie acide come punte di spilli su occhi spalancati su osceni scenari. Le chitarre sono contrastanti, respingenti, è impossibile possano incastrarsi così alla perfezione, stop and go e poi giù, ripartire ancora più veloci.
Un lavoro ipnotico. James Oskarbski è un cantante ottimo ma soprattutto un fenomenale compositore, chitarrista dalle mille risorse. Tutto il lavoro è permeato dalla sua grazia compositiva, con chitarre su chitarre, ora taglienti, ora rumorose, ora melodiche, ma sempre malate. Una sezione ritmica che permette tutto questo, garantendo un substrato di materia solida, al contempo instabile. Questo disco è il vaso di Pandora: aprirlo, per lasciarsi travolgere, è d’obbligo.
(I, Voidhanger Records, 2024)
1. Long Stretch of Bleeding Light
2. The Hissing Pyre
3. Illuminations
4. Gnawing the Fabric of Time
5. Unbending Follicle, Unending Blight