Sarebbe inutile iniziare la recensione di Sect of Vile Divinities spiegando perché gli Incantation siano una delle band death metal più importanti di sempre o perché sia incredibile che, dopo esattamente trent’anni di attività (del 1990 il primo demo del gruppo), la band di John McEntee e diabolici soci sia ancora maledettamente sul pezzo, sempre pronta a insidiare le nostre orecchie con il suo macabro metallo della morte. Passiamo quindi a parlare dell’ultimo lavoro della formazione, uscito il 21 agosto tramite la potente Relapse Records, che ci mette di fronte a degli Incantation impeccabili e rigorosi, sempre ligi allo stile morboso e strisciante che li caratterizza dal primo e fondamentale Onward to Golgotha e che qui ci propongono in chiave “twenties”, con suoni aggiornati e ritmiche moderne ma sempre fedeli alla filosofia del gruppo.
Molto più che in altri lavori della propria carriera, in Sect of Vile Divinities gli Incantation ci pongono di fronte a tematiche oscure e arcane, spalancandoci i portali di un mondo di demoni e divinità ancestrali (le “vile divinities” del suggestivo titolo) portate in vita da un growl pastoso e gutturale e da una linea chitarristica che spazia da cavalcate death anni ’90 (impossibile non muovere la testa su “Black Fathom’s Fire”) a rallentamenti a volte sinuosi (“Scribes of The Stygian”), a volte marziali (“Shadow-blade Master…”), che da sempre rendono distinguibile tra mille il sound del gruppo. Questa tendenza a distendere il riffing e a dilatare i tempi aggiunge alla violenza e all’opprimente oscurità che accomuna tutto il buon death metal un che di ritualistico e misterioso, senza mai sconfinare nel doom o nel funeral: gli Incantation, a differenza di quanto troppo spesso capita di leggere, non sono e non sono mai stati una band death-doom, mantenendo anche nelle sezioni più ”rallentate” della propria proposta, un groove e un riffing indiscutibilmente death. Si vedano a questo proposito le ottime “Entrails of The Hag Queen” e “Unborn Ambrosia”, che riassumono in dieci minuti quanto di più importante fatto dalla band negli ultimi trent’anni. Questo sound tipico ed unico, come già detto, è qui confezionato in maniera moderna e aggiornata; batterie stile anni ’10 e chitarre taglienti e acide rendono il suono della band confrontabile con quello di formazioni più giovani: “Siege Hive” e “Ritual Impurity” potrebbero essere state composte dai Tomb Mold o dai Temple of Void pensando al capolavoro The Infernal Storm (2000).
Con un minutaggio di entità medio-bassa più uniformemente distribuito rispetto a quanto fatto negli album immediatamente precedenti (Dirges of Elysium, 2014 e Profane Nexus, 2017, contengono brani con una differenza di minutaggio maggiore) e un connubio mai eccessivo o manieristico tra groove e slowdown, Sects… è un lavoro godibile ed interessante, perfetto sia per i fan di lungo corso, che ritroveranno i loro beniamini in forma smagliante, sia per chi fosse al primo ascolto e volesse coraggiosamente intraprendere l’oscuro viaggio che si snoda attraverso i dodici album di questa band maledetta.
(Relapse Records, 2020)
1. Ritual Impurity (Seven of The Sky Is One)
2. Propitation
3. Entrails of The Hag Queen
4. Guardians from The Primeval
5. Black Fathom’s Fire
6. Ignis Fatuus
7. Chant of Formless Dread
8. Shadow-blade Master of Tempest and Maelstrom
9. Scribes of The Stygian
10. Unborn Ambrosia
11. Fury’s Manifesto
12. Siege Hive