Con l’uscita di Watershed (2008) gli Opeth avevano finalmente esplicitato il proprio cambio di rotta stilistico, portando a maturazione quel sound che dava le prime acerbe avvisaglie già nell’ottimo Ghost Reveries (2005): Watershed vedeva la band guidata da Akerfeldt alle prese con strutture più snelle ed agili, improntate su un recupero della tradizione progressive europea settantiana, riducendo enormemente le parti death metal oriented. Era quindi impensabile ipotizzare che la band non proseguisse sulle coordinate qui tracciate: Heritage non è altro che un’ulteriore evoluzione del sound degli Opeth, e sebbene risulti il prevedibile passo successivo a Watershed, riesce comunque a lasciare spiazzati, non essendo altro che un album di puro progressive rock.
Cerchiamo quindi di capire quali sono i punti principali che fanno di Heritage il lavoro più particolare e complesso che la band abbia pubblicato fino ad ora: prima di tutto la totale assenza del growl, scelta difficile al giorno d’oggi che, sebbene possa essere considerata tale, è tutt’altro che mainstream in un panorama death metal che punta ad una constante tensione verso “l’ancora più estremo”; l’assenza dei canoni death, dai blast beats alla costruzione dei riff e delle ritmiche; infine la durata relativamente contenuta dei brani, che solo in due casi superano gli otto minuti. Sembrerebbe quindi un disco caratterizzato da lacune e importanti mancanze, ma non è così: finalmente sono tangibili le influenze del progressive rock, del sound caldo e malleabile degli anni settanta, delle strutture complicate ma non prolisse. “The Devil’s Orchard” rappresenta appieno questa nuova identità: una struttura realmente progressive in circa sette minuti di durata, tra un costante lavoro tastieristico (o meglio organistico) e una serie di interessantissimi passaggi di gran tensione musicale, il tutto generato da un nucleo di appena quattro note discendenti.
Troviamo poi “Folklore”, forse il brano più legato al passato più prossimo della band, vero e proprio gioiello: divagazioni acustiche dal sapore sinistro si fondono con morbide melodie di chitarra, amalgamate dalla voce impeccabile di un Akerfeldt decisamente in forma; poi la ritmica cambia, rivolta ad un beat quasi meccanico, aprendosi in un atipico tappeto tastieristico sul quale un ostinato riff di chitarra riporta ad una variazione della melodia principale. Brani come “Haxprocess” e “Nepenthe” rappresentano lo spirito più intimistico e raccolto della band: la prima risulta il brano migliore dell’insieme, dove semplicissime melodie si fondono per creare un’immagine di chiarezza sorprendente, tra brevi ma intensi passaggi di chitarra classica, ritmiche cangianti ma naturali e una costante atmosfera di rassegnata malinconia; la seconda non è da meno, sebbene risultino più marcate le influenze progressive e (in questo caso) quasi fusion. “Famine” ci presenta la band affiancata da due ospiti decisamente particolari:Bjorn Johansson Lindh, virtuoso flautista svedese, impegnato nel campo della fusion e del jazz più tradizionale, e Alex Acuña, percussionista di fama mondiale, membro degli storici Weather Report, nonché collaboratore dei più grandi musicisti della scena jazz mainstream moderna. “Slither” porta i musicisti a cimentarsi su di una ritmica dal sapore hard rock, basata su un riff che in qualche modo può ricordare il Richie Blackmore dei primi Rainbow: il solo spiccatamente rock, i quattro minuti appena di durata e l’impostazione generale rendono questo uno dei brani più particolari mai composti dalla band. Una precisazione: le parti di Hammond, mellotron, Wurlitzer , Rhodes e tastiere sono state incise da Per Wiberg, uscito però dalla band con la conclusione delle registrazioni; ad oggi gli Opeth si avvalgono di Joakim Svalberg, preparatissimo tastierista nonché esecutore dell’introduzione pianistica dell’album.
In conclusione Heritage si presenta come un album dei “nuovi” Opeth, quelli che da Ghost Reveries in poi continuano a dividere il pubblico e i fan in due fazioni ben distinte; risulta comunque un buonissimo album, nel quale non è raro trovare veri e propri picchi di genialità e freschezza. Nella situazione odierna penso che non sia lecito domandare di più ad una band particolare e assolutamente unica come gli Opeth.
(Roadrunner Records, 2011)
1. Heritage
2. The Devil’s Orchard
3. I Fell The Dark
4. Slither
5. Nepenthe
6. Haxprocess
7. Famine
8. The Lines In My Hand
9. Folklore
10. Marrow of The Earth
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