Come promesso, cominciamo oggi ad offrirvi il resoconto del Roadburn Festival 2016, svoltosi dal 14 al 17 aprile a Tilburg, Paesi Bassi. Vi abbiamo già ampiamente presentato, in un articolo scritto prima della nostra partenza, il programma della rassegna e le novità di quest’anno dal punto di vista logistico, perciò andiamo dritti al punto: quella del Roadburn è stata ovviamente un’esperienza molto positiva. L’atmosfera che si respira per le vie di Tilburg in queste occasioni è indescrivibile, trasudante com’è di amore per la musica e spirito di condivisione. L’unico aspetto negativo che abbiamo riscontrato, soprattutto confrontandoci con alcuni “veterani”, è stata la presenza di code all’ingresso dei palchi minori: i lavori di ampliamento dello 013 hanno permesso all’organizzazione di vendere più biglietti, e questo ha provocato l’eccessivo riempimento di alcune sale in occasione di concerti dal richiamo inaspettatamente elevato. Sicuramente una novità per un festival come il Roadburn, da sempre geloso della sua esclusività e della sua organizzazione “a misura d’uomo”, ma sia chiaro, non stiamo certo parlando di disagi tanto grandi da pregiudicare la bontà di questi quattro giorni olandesi. Quando si partecipa ad eventi del genere, in cui comunque ogni band ha mediamente a disposizione 50-60 minuti, si è consapevoli di dover fare delle scelte: dieci minuti per ogni gruppo o pochi, selezionati concerti interi? Per offrirvi un report il più possibile organico (e per non impazzire noi stessi) abbiamo privilegiato la seconda opzione.
Conclusa questa doverosa premessa, partiamo dal racconto del primo giorno: oggi vi parliamo di Cult of Luna, Inverloch, Hexvessel, Converge e Paradise Lost.
Live report a cura di Ico
Fotografie di Anna
CULT OF LUNA – Somewhere Along The Highway
L’apertura delle danze sul Main Stage è affidata ai Cult of Luna, per uno show che racchiude in sé due dei temi portanti di questo Roadburn: la massiccia presenza di sonorità post-core/metal e la riproposizione completa di album più o meno “storici”. La band svedese infatti, nonostante la pubblicazione del nuovo album Mariner, scritto in collaborazione con Julie Christmas, è attualmente in tour per celebrare i dieci anni dall’uscita di Somewhere Along The Highway; una scelta strana, se si considera il parere più o meno condiviso che il loro capolavoro sia Salvation. Tuttavia, è probabilmente Somewhere… il disco che, riprendendo e consolidando le intuizioni contenute nel suo predecessore, ha reso “istituzionale” quel Cult of Luna-sound che sempre più proseliti ha fatto nel corso degli anni Dieci. E allora, nonostante le perplessità, i motivi d’interesse per questa esibizione c’erano tutti. In primis, non può che essere un piacere vedere all’opera i Cult of Luna, notoriamente una band precisa e super-professionale, nella prestigiosa cornice dello 013. I sette svedesi riempiono il palco con grande disinvoltura, creando un muro di suono notevole: in uno show simile si apprezza particolarmente la presenza delle due batterie (o batteria più percussioni, a seconda dei momenti), una caratteristica che dona grande dinamicità ai pezzi del gruppo. L’altro punto di forza dell’esibizione è sicuramente il gioco di luci, sempre suggestivo e capace di compensare al meglio la scarsa mobilità dei musicisti. Resta da considerare la scaletta: per quanto Somewhere Along The Highway non sia il nostro album preferito dei Cult of Luna, il concerto tenuto al Roadburn ci ha regalato una coinvolgente esecuzione di “Dim”, uno dei pezzi più belli tra quelli composti dalla band di Umea, raramente proposto dal vivo. Quando poi finisce “Dark City, Dead Man”, con il suo magniloquente crescendo finale, ci rendiamo conto che in fondo è maggiore la soddisfazione per quanto visto piuttosto che la fame di altri pezzi. Bene così dunque: benvenuti al Roadburn 2016.
INVERLOCH
Appena finiscono i Cult of Luna ci catapultiamo subito nella sala a fianco per vedere almeno mezzo concerto degli Inverloch, la nuova band di Matthew Skarajev e Paul Mazziotta dei Disembowelment. Sulle nostre pagine potete trovare il report completo del loro concerto insieme agli Usnea in quel di Bologna; le differenze rispetto a quella sera risiedono principalmente nel numero di persone presenti al concerto, in questo caso estremamente maggiore. Sono in tanti infatti a rispondere “presente” alla chiamata della Storia del death/doom, ma tanti sono pure i curiosi, e gli Inverloch sembrano esserne consapevoli. Il loro è uno show tirato e coinvolgente, baciato da suoni, manco a dirlo, impeccabili che rendono sempre perfettamente distinguibile la chitarra di Skarajev, soprattutto quando sopraggiungono quelle melodie malinconiche e decadenti che saltuariamente spezzano la tensione e impreziosiscono i pezzi degli Inverloch. Sono certamente Skarajev e Mazziotta i poli d’attrazione della band: forse siamo condizionati dalla conoscenza dei loro trascorsi, ma la loro disinvoltura nel suonare e il loro carisma ci appaiono un fattore evidente, determinante nella resa finale di un concerto che ha sicuramente permesso loro di ottenere nuovi sostenitori.
Usciti dallo 013 ci scontriamo per la prima volta con il problema di cui parlavamo in apertura: la fila per assistere a Der Blutharsch and the Infinite Church Of The Leading Hand esce di parecchio fuori dal Patronaat, perciò ci spostiamo al piccolo Cul de Sac, che sarà il nostro “rifugio” preferito tutte le volte che avremo voglia di una birra decente (o di un caffè, per quanto imbevibile). Qui ci accolgono i New Keepers of the Water Tower, formazione svedese autrice di un gradevole psych-rock. Anche in questo caso il locale è ai limiti della capienza, perciò, rassegnati, dopo pochi minuti torniamo a prendere posto al Main Stage.
HEXVESSEL
Qui vanno in scena gli Hexvessel di Mat McNerney, ovvero Kvohst, l’uomo che una decina di anni fa cantava nei Code e in Supervillain Outcast dei DHG, lo stesso uomo chiacchieratissimo nel 2013 per il suo revival post-punk con i Beastmilk, il “metallaro” inglese che, trasferitosi in Finlandia, ha deciso di liberare definitivamente il freak nascosto in sé. I discorsi da “hippy” tra un pezzo e l’altro non lasciano dubbi: gli Hexvessel sono espressione non solo dell’amore di Kvohst per i Settanta, ma anche della sua sana follia. Con tanto di mantellina da druido e gillet, McNerney sembra divertirsi un mondo nel riproporre il suo folk rock bucolico e allucinato, con la band a fare da semplice contorno alla strabordante personalità del britannico. La setlist è incentrata prevalentemente sui pezzi di When We Are Death, che dal vivo acquistano certamente maggiore verve (particolarmente intensa l’esecuzione di “Cosmic Truth”), ma che denotano la stessa mancanza di profondità “mistica” riscontrata su disco rispetto al ben più riuscito No Holier Temple. Il risultato è uno show certamente molto gradevole, ma, superata la mezz’ora, sempre più innocuo.
CONVERGE – Jane Doe
A questo punto è il momento del primo dei due concerti tenuti dai Converge al Roadburn 2016, quello in cui viene riproposto per intero il loro capolavoro Jane Doe, semplicemente uno dei dischi fondamentali degli anni Duemila. “Are you ready for this? Let’s do this”: Jacob Bannon piomba sul palco con la solita aria caracollante e fatalista, e in un attimo si scatena il putiferio. Come da copione: “Concubine”/“Fault and Fracture”, in quattro minuti c’è tutto ciò per cui i Converge sono diventati uno dei gruppi più influenti degli ultimi vent’anni nella musica pesante. Tutto molto bello, ma non siamo così impressionati: sono pezzi sempre presenti nelle loro scalette e i quattro di Salem sembrano procedere col pilota automatico nella loro comfort zone. Bannon è il solito Bannon degli ultimi anni, una scheggia sul palco, sempre più teatrale e sempre più spesso in posa in favore dei fotografi sottopalco. Insomma, per i primi pezzi la sensazione è che i Converge stiano tirando avanti “di mestiere”, ma col passare del tempo le sensazioni cambiano, ed emerge chiaramente la forza di un disco che ormai vive di vita propria, uno splendido mostro da tempo liberatosi dal controllo dei propri creatori. Certo, anche loro, “scaldandosi”, rendono sempre più coinvolgente lo show, ma è evidente come essi stessi col passare del tempo si lascino affascinare dai fantasmi del passato: esemplificativa la performance di Bannon in questo senso, sempre meno teatrale e sempre più sofferta, coinvolta nel cantare testi che non hanno perso il loro significato per essere stati ripetuti troppe volte. Capirete dunque come la seconda parte del concerto (coincidente con l’ingresso di Steven Brodsky come seconda chitarra) sia stata semplicemente incredibile. “Phoenix in Flight” proietta tutti i presenti in una bolla, che viene fatta scoppiare dall’inscindibile “Phoenix in Flames”: solo la possibilità di sentire dal vivo questa accoppiata varrebbe il prezzo del biglietto, ma dopo un’altrettanto intensa “Thaw” viene il momento dei dieci minuti finali di “Jane Doe”. La suite conclusiva, impreziosita dai cori “angelici” di Brodsky, è senza dubbio uno dei momenti migliori di tutto il festival, un turbinio di emozioni che non può lasciare indifferenti i tanti che, a giudicare dall’età media, se sono qui è anche perché Jane Doe ha letteralmente cambiato loro la vita. L’emozione nella voce di Jacob Bannon sembra sincera e reale, ma anche se non lo fosse non importerebbe, perché in quel momento ciò che tutti i presenti stanno rivivendo è quella stessa emozione che provarono la prima volta che ascoltarono quel disco. O almeno questo è ciò che crediamo: per quanto ci riguarda, il vuoto provato alla fine del concerto ci ricorda davvero la prima volta che, a malapena adolescenti, scoprimmo la decadente bellezza di Jane Doe. Cosa si può chiedere di più?
PARADISE LOST – Gothic
Il nostro primo giorno di Roadburn si chiude con un altro appuntamento con la Storia, con un altro colpo al nostro animo nostalgico, con i Paradise Lost che suonano per intero Gothic a venticinque anni di distanza dalla sua pubblicazione. Su questo album bisogna fare un discorso diverso rispetto alle analisi scritte per le altre due opere celebrate quest’oggi. Gothic è un disco fondamentale, uscito in un anno, il 1991, capace di definire molte delle correnti musicali che hanno reso grandi gli anni Novanta; è un album che ha di fatto creato e dato il suo nome ad un intero genere, influenzando decine e decine di formazioni. Ma il punto è che non è invecchiato così bene. Pur contenendo invenzioni (leggasi: i riff e gli assoli di Greg Mackintosh) incredibili per l’epoca, è evidente come, al di là della sua importanza storica inestimabile, sia inferiore ad alcuni dei capolavori che gli stessi Paradise Lost hanno composto negli anni successivi. Prendete un pezzo come “Shattered”, allucinante se si pensa alla data di uscita ma contenente soluzioni sviluppate in maniera decisamente più completa da Mackintosh e soci nella seconda parte della loro carriera. Certo, vedere i Paradise Lost suonare dal vivo un brano death metal come “Falling Forever” è un’esperienza unica, ma, diciamolo, ci sarà pure un motivo se non era mai stato suonato; così come c’è un motivo se i pezzi rimasti saltuariamente in scaletta, seppur non in versione “originale” come stasera, siano tutt’ora gli episodi migliori (“Gothic”, “Eternal”, “The Painless”). Parlando di fedeltà agli originali, nulla da dire sulla performance di Nick Holmes: si è a lungo vociferato che non riuscisse più a cantare in growl, ma se il disco con i Bloodbath aveva già fatto scomparire queste voci, la prova di stasera ci toglie ogni dubbio.
Resta il fatto che, per quanto l’operazione nostalgia si sia rivelata riuscita e godibile, noi ci siamo divertiti di più quando è arrivato il momento dei bis, comunque incentrati su materiale degli anni Novanta o dell’ultimo The Plague Within, con il quale i Nostri hanno ripreso le sonorità di Gothic “aggiornandole” grazie all’esperienza nel frattempo accumulata. Si “ricomincia” dunque con “Embers Fire”, indimenticabile opener di Icon, per poi passare ad un inaspettato regalo, l’epica “Hallowed Land”, che ci ha fatto semplicemente impazzire. Immancabili in una serata come questa pezzi come “As I Die” e “Pity The Sadness”; ottima, infine, la resa live di due pezzi nuovissimi (ma tremendamente vintage) come “No Hope In Sight” e “Beneath Broken Earth”, brano puramente doom/death dall’ispirata vena malinconica, perfetto per chiudere il cerchio e per concludere questa giornata all’insegna della celebrazione del passato.
Un’ultima nota su Costin Chioreanu, artista rumeno che ha impreziosito il Roadburn con diversi poster, grafiche e visuals: quelli creati per il live dei Paradise Lost sono stati semplicemente superlativi.