PANOPTICON è la gabbia in cui abbiamo volontariamente scelto di isolarci. Uno spazio che dedichiamo alla musica che più ci piace, e di cui preferiamo parlare senza alcuna fretta. Da, diamo uno sguardo a tutto ciò che abbiamo trascurato nei mesi scorsi e facciamo una cernita delle primizie musicali più particolari, assorbendo e godendo di ogni loro cellula.
PRIMUS > CONSPIRANOID
Ogni volta che esce qualche cosa di nuovo dei Primus è sempre una sorpresa, complice sicuramente anche il tempo che intercorre tra un lavoro e l’altro. Cinque anni fa usciva The Desaturating Seven, un disco strano e bislacco (si parla pur sempre dei Primus) e oggi Conspiranoid fa la sua comparsa, un EP di tre pezzi costruito molto più sugli intervalli che sulla fiumana di sonorità ciompe a cui questi titani ci hanno abituato. In appena venti minuti Conspiranoid cerca di interrompere la solita miscela freak di zappiana memoria che conosciamo bene, andando a mettere sul banco un prodotto decisamente più melodioso, naturalmente restando nel contesto del trio. Questa volta sembra che il sopravvento l’abbia preso la parte più free jazz della band, andando a dare forma a un disco in cui la opener “Conspiranoia” è una lunga antifona meditativa che apre le danze per le ben più brevi “Follow the Fool” e “Erin on the Side of Caution” che si destreggiano tra un jazz incolto e un funky caustico e stanco. I principi basilari per un’uscita dei Primus praticamente perfetta. (Antonio Sechi)
KREATOR > HATE UBER ALLES
Hate Uber Alles, il quindicesimo album in studio dei Kreator, rappresenta un’ottima uscita per una band che con il passare degli anni continua a lavorare e a produrre musica. Da sempre i pionieri del thrash metal tedesco portano avanti un discorso musicale in evoluzione e ogni disco può essere visto come un passo in più rispetto al precedente. Questo tipo di lavoro è stato sicuramente molto vivace nella parentesi dark wave degli anni Novanta, ma continua ad essere un caposaldo anche dopo il ritorno al thrash da Violent Revolution in poi. Rispetto ai lavori precedenti è forse meno immediato, e ammetto che ad un primo ascolto l’ho trovato addirittura un po’ stanco, fiacco e difficile da far scorrere fino alla fine. Si tratta invece di un lavoro che necessita semplicemente di un paio di ascolti in più per coglierne la bellezza di un disco davvero maturo e caleidoscopico, in cui confluiscono non soltanto i consueti stilemi del trash, ma anche sezioni più di largo respiro che hanno un lieve retrogusto di Endorama. Un disco assolutamente consigliato come ottimo antidoto contro i tormentoni estivi. (Siro Giri)
GOSPEL > THE LOSER
Nel 2005, il loro debutto The Moon Is a Dead World è stato un fulmine a ciel sereno, con cui dal nulla una formazione attiva da soli due anni ha scritto un tassello fondamentale della storia del post-hardcore. Il nome della band è Gospel, e dopo diciassette anni sono tornati con il loro secondo album The Loser. Oltre alla piacevole sorpresa nel vedere il loro nome spiccare tra le nuove uscite, stupisce anche il modo in cui il loro spirito eccentrico non sia praticamente mutato, come se questi quasi due decenni li avesse passati in ibernazione. Con questi otto brani i (ormai non più) ragazzi da Brooklyn fortificano con possenza l’anima progressive della loro proposta, con il fascino dei loro classici synth qui ancora più variegato, e sostenuto in alcuni passaggi anche da parti di organo. Comprensibilmente meno aggressivo del debutto, The Loser è comunque un album grintoso e stravagante, in cui a ogni passaggio si aggiungono caratteristiche nuove e il songwriting non è mai scontato. Un ventaglio tra post-hardcore, prog rock e math rock che descrive come meglio non si può lo spirito dei Gospel, una garanzia anche dopo quasi vent’anni di silenzio. (Jacopo Silvestri)
BELLE AND SEBASTIAN > A BIT OF PREVIOUS
Il decimo album dei Belle and Sebastian sancisce la certezza che la band scozzese, nonostante i tanti anni di carriera, rimane attualmente uno dei punti di riferimento della scena alternative rock. L’album in questione si intitola A Bit of Previous e possiede tutte le qualità con le quali il gruppo di Glasglow ci ha coccolato dal 1996 ad oggi, ovvero tanta sensibilità nel songwriting, delicatezza nella esecuzione dei pezzi, tanta musicalità anche attraverso strumenti a fiato miscelate a melodie ficcanti e leggere. Per quanto i nostri beniamini abbiano negli anni elaborato un proprio stile riconoscibile tra le note che compongono questa ultima opera riecheggiano richiami a gruppi fondamentali per la nascita dell’indie rock. Ascoltando pezzi come “Talk To Me Talk To Me” e ”Prophets On Hold” torna subito alla mente il Paul Weller migliore, mentre “Do It For Your Country” sembra un tributo ai Velvet Underground meno lisergici ed infine tracce come “Unnecessary Drama” e “A World Without You” sono indubbiamente della scuola inglese dei The Smiths. Uscito a maggio di quest’anno per l’etichetta Matador, A Bit of Previous, in un tripudio di sonorità pop e folk potrebbe essere l’album giusto per farsi cullare in questa estate afosa. (Matteo Bozzuto)
MISERY INDEX > COMPLETE CONTROL
I Misery Index non sono una band qualunque. Sono portatori, reggenti e sovrintendenti assieme agli Aborted della bandiera del deathgrind... o almeno lo erano. Eh sì, perché a lungo andare la band si è lanciata in una campagna di modernizzazione che ha portato il loro sound così crudo degli inizi a diventare sempre più raffinato inquinando persino la natura della band stessa. Complete Control si presenta cruento, ma allo stesso tempo sembra portare i guanti di velluto. I riff sono sofisticati nella propria semplicità e quasi dotati di una sorta di melodia completa di armonie e contrappunti, dettagli interessanti certo, non v’é dubbio, ma solo in certi ambienti. Alla fin fine siamo di fronte a un lavoro interessante e molto carico di stamina, ma a lungo andare nell’ascolto appare ovvio che l’attenzione vieppiù costante verso la fruibilità ha preso seggio in questa, andando a minare l’esperienza che deriva da un disco di deathgrind come si deve. In poche parole: bel lavoro sì, ma Traitors era un’altra cosa. (Antonio Sechi)
AEVITERNE >THE AILING FACADE
Ci ha visto molto lungo la Profound Lore Records mettendo sotto contratto gli Aeviterne dopo l’interessante debutto con l’EP Sireless (2018). Il primo album per la band da New York, The Ailing Facade, li pone già tra i nomi di rilievo della scena death metal attuale, con la loro proposta sinistra e alienante. Definire come semplice death metal la musica dei Nostri però è alquanto riduttivo, dato che hanno sviluppato un sound molto più massiccio e variegato, forte di momenti atmosferici tra industrial e post metal davvero imponenti. Non sorprende vedere come il quartetto sia formato da alcuni dei volti più noti se si guarda al death metal con una certa propensione per un sound caotico e fuori dagli schemi. Soprattutto, il leader del progetto è Garett Bussanick, ex Flourishing, la cui intenzione è proprio continuare le sperimentazioni fatte all’inizio dello scorso decennio con quel progetto, e il suo tocco è chiaro. Questo album si tratta di uno dei lavori più asfissianti e multiforme nella scena death metal recente, un vortice sonoro dissonante e colmo d’angoscia, frutto della collaborazione tra quattro menti geniali con la volontà di ampliare i confini del metal estremo. (Jacopo Silvestri)
MUNLY & THE LUPERCALIANS > KINNERY OF LUPERCALIA; UNDELIVERED LEGION
Esiste un “Denver Sound“, e Munly J Munly, semplicemente Munly, ne è probabilmente il suo profeta. Un genere che annovera tra le sue file Wovenhand e 16 Horsepower, e una pletora di gruppi più o meno attivi che ruotano spesso attorno al medesimo nucleo di musicisti. Kinnery Of Lupercalia; Undelivered Legion di Munly & The Lupercalians è l’ultimo nato in seno a questo genere, e dannazione, lo rispecchia al 100%. Un mix esplosivo e fortemente ipnotico di Americana, American Gothic, Folk, Country, Gospel nei suoi connotati quasi spirituali, ossessivi, sciamanici e vagamente torbidi. Otto pezzi che non fanno prigionieri, Munly stordisce sin dall’apertura “Ahmen” e continua ad infierire colpi su colpi grazie a coinvolgenti crescendo carichi di pathos, nei quali la sua voce baritonale si giostra tra numerosi registri pur mantenendo sempre elevato il grado di tecnica e qualità. Intorno a lui armoniche, melodiche, violoncelli, percussioni di vario tipo, tastiere, e l’immancabile banjo, per un festival sghembo, anche grottesco se vogliamo, ma dannatamente affascinante e assolutamente particolare. Non per tutti, ma imperdibile per chi ha un debole per queste sonorità. (Federico Botti)
BLEED FROM WITHIN > SHRINE
Non penso di farla tanto lunga, voglio solo dire che a volte viene voglia di ascoltare gli Architects, qualcosa dei primi Elitist e magari toh, anche qualcosina dei Whitechapel perché sono tre ascolti tutto sommato interessanti se si apprezzano determinate sonorità moderne, ma sono interessanti perché hanno delle personalità proprie, che non cozzano assolutamente fra di loro. I Bleed From Within hanno tentato più volte di far cozzare questi tre elementi e alla fine con Shrine ci sono riusciti. Il risultato? Beh, meglio tornare ad ascoltare Whitechapel, Elitist e Architects. Almeno nei loro dischi distingui un pezzo dall’altro. (Antonio Sechi)