VIDEO NASTY è un termine coniato in Inghilterra negli anni 80 dal comitato censura per indicare i film da VHS che avevano un contenuto violento o comunque mal visto.
Questa nuova rubrica parla di cinema ed è a cura di Carmelo Garraffo ed Emiliano Zambon.
Se vuoi proporci un film da recensire o collaborare con noi, scrivi a redazione@grindob.cluster100.hosting.ovh.net
NOSFERATU di Robert Eggers (2024)
Arriva a cavallo fra la fine del 2024 e inizio del 2025 il nuovo film di Robert Eggers, quel Nosferatu divenuto famoso prima col film di Murnau (1922) e poi con il remake di Herzog (1979). Per quelle pochissime persone che non sapessero cosa sia Nosferatu la faccio breve: è un rip-off del Dracula di Bram Stoker. Nel 1922 Murnau non avendo i diritti sull’opera originale fece un film che copiava le idee di Dracula, venne denunciato, perse la causa e il resto è storia, nel senso che nonostante tutto siamo arrivati al 2025. Il Nosferatu di Eggers ha un solo, eventuale, difetto (se vogliamo chiamarlo tale), ovvero che è un remake a tutti gli effetti. La storia, di base, è quella che conosciamo tutti a memoria. Thomas, giovane agente immobiliare, lascia la giovane moglie a casa per andare a vendere un immobile a un conte nei Carpazi finendo in una trappola. Al che via di nave verso il nuovo mondo e tutto quello che sapete già. Per alcuni potrebbe essere un problema (per me lo è parzialmente) ma penso sia giusto concentrarsi su altro vista la sua natura di remake. Eggers fa Eggers, ovvero il maniaco di una certa forma e di una certa sostanza. Anche qui, come nei suoi film precedenti, c’è tutta una ricerca storica che si può leggere tra le righe, a cominciare dal look del nostro conte. Certo, andando a innestarsi in una storia già scritta il folklore, quello vero, è meno preponderante ma è comunque presente. La vera novità del film è data da dei piccoli, nuovi, dettagli che danno alla storia un senso leggermente diverso rispetto a quella raccontata dei predecessori. Se il conte era prima al centro del racconto, in una storia che ha al centro l’uomo, il mostro, con la donna sostanzialmente da salvare, qui il femminile è centrale a tal punto che tutto il film gira intorno a Ellen, la giovane moglie di Thomas, anche nella risoluzione finale, aggiungendo un sottile strato narrativo/sociale sul ruolo che la donna dovrebbe avere in un epoca come quella. Non dico di più per non rovinare il film a nessuno. Per il resto è girato in maniera magistrale con attori, costumi, regia e fotografia che vi riempiranno se non il cuore almeno gli occhi.
recensione di Carmelo Garraffo
NIGHTBITCH di Marielle Heller (2024)
Come siete messi a maternità? Sì, lo so, è una domanda stranissima da leggere su queste pagine ma è proprio di questo che, sostanzialmente, parla questo film, pur scegliendo di farlo in un modo tutto particolare. Ovvero prendendo Amy Adams e trasformandola, piano piano, in un CANE (letteralmente). Se pensate che la premessa sia tutta matta beh, lo è. Di fatto la nostra protagonista ha appena avuto un figlio e le cose non vanno proprio come sperato, sia per l’assenza costante del marito sia perché la maternità fa schifo. Tutta la prima parte del film è infatti alla stregua di un body horror dove la frustrazione e la difficoltà si manifestano in una mutazione fisica a tutti gli effetti. “Interessante”, direte voi e “interessante” è quello che ho pensato anche io ma per gusto personale il film va a parare dove non avrei voluto, partecipando al classico sport del “lanciare il sasso e nascondo la mano”. Mi aspettavo che andasse fino in fondo con una critica molto feroce e invece sceglie una strada differente che, per gusto personale (sono un maledetto cinico) avrei evitato. Qui ritorniamo alla domanda iniziale: come siete messi con la maternità? Sia vostra che di altri? Da questo dipenderà, probabilmente, il vostro gradimento. Da noi il film salta la sala e nel momento in cui leggerete queste righe, casomai voleste recuperarlo, dovrebbe essere uscito su Disney+.
recensione di Carmelo Garraffo
THE SEED OF THE SACRED FIG di Mohammad Rasoulof (2024)
In uscita nelle sale italiane il 20 febbraio 2025, The Seed of the Sacred Fig è uno di quei film che potremmo definire politici. Presentato al festival di Cannes 2024, dove ha vinto il premio speciale della giuria, è un film iraniano girato da un regista che dall’Iran è dovuto scappare, uno di quei registi che usa il proprio cinema per fare metafora e denuncia delle ingiustizie sociali e politiche che schiacciano il proprio paese. State tranquilli, non è esclusivamente un film fatto per chi vai ai festival col fazzoletto nel taschino della giacca di lana ma riesce a parlare il linguaggio di tutti riuscendo ad appassionare sia nella sua dimensione prettamente filmica che allo stesso tempo quella più profonda, arrivando inevitabilmente a farvi riflettere su cosa succede nel mondo. Insomma, il cinema fatto bene. La storia è ambientata in Iran in un momento storico di scontri e manifestazioni che porteranno le figlie di una famiglia per bene, con un padre che lavora all’interno della macchina dello stato, a farsi più di una domanda su quello che è il loro ruolo all’interno della famiglia e della società. È girato come un thriller della paranoia dove succedono cose che faranno crescere piano piano la tensione, sia per quello che succede fuori sia per quello che succede dentro, e ad una pistola che fareste bene a seguire nei movimenti. È un ottimo film che ci costringe, grazie anche all’uso di inserti reali, a ragionare su quello che è il mondo fuori dal nostro paese. Guardatelo, fidatevi.
recensione di Carmelo Garraffo
ANORA di Sean Baker (2024)
Fino all’ultimo mi sono chiesto se questo mese fosse giusto scrivervi di Anora. Me lo sono chiesto perché di solito preferisco parlare di qualcosa di più piccolo e laterale in modo da dare a voi lettori un suggerimento su qualcosa che passa più difficilmente sotto i radar dei fissati come il sottoscritto. Anora è stato un grosso successo commerciale e di critica di cui si è parlato molto (ha vinto a Cannes), a tal punto che quando mi sono deciso a vederlo non è che fossi convintissimo, prevenuto come le brutte persone. Mi sbagliavo a tal punto che ora che sono qui a buttare giù queste righe vorrei non faceste il mio stesso errore. Anora è un buon film che riesce a parlare di lotta di classe senza che ve ne accorgiate, con il suo modo divertito e esagerato sparato dritto in faccia come la peggior musica da cassa dritta che SICURAMENTE avete schifo ad ascoltare (o forse no?). Ha l’aspetto di un film di genere e la storia, a raccontarla, è un po’ da orticaria: una sex worker conosce un giovane e ricco russo di cui si innamora e comincia a far festa finendo per sposarlo fino a quando, ovviamente, succedono cose. Tutto qui? Tutto qui, almeno nel lunghissimo prologo. Diciamo che il film mischia in modo intelligente un cinema che tutti conoscono bene per farne un po’ quello che vuole e sovvertirne le aspettative. È un film che principalmente diverte ma che se guardato bene colpisce sia alla testa che al cuore. Io ero pronto ad esserne respinto e invece ho finito per divertirmi un mondo, ipnotizzato da una Mikey Madison che vola su tutto il film. Forse lo trovate ancora in qualche sala. Se così non fosse e non l’aveste visto segnatevelo sulle note del telefono dove (spero) vi state segnando tutti i film che non avete visto di questa rubrica. Vero?
recensione di Carmelo Garraffo
ERASERHEAD di David Lynch (1977)
Il classico di questo mese non poteva che essere dedicato alla memoria di David Lynch, venuto a mancare da pochissimo, un regista che ha cambiato per sempre sia il panorama cinematografico tutto sia le nostre teste e, per quanto mi riguarda, le nostre vite. Il suo primo film è del 1977 e segna il passo dalla carriera di pittore a quella di regista del nostro amato David che mette al suo interno tutto quello che il suo cinema ha poi proposto negli anni a venire, come una sorta di dichiarazione di intenti senza compromessi a un mondo che da li a poco avrebbe cominciato a conoscerlo. Come se avesse detto “io sono questo, prendere o lasciare”. Eraserhead è un mélange di suggestioni riprese dall’arte figurativa di Francis Bacon e di H.R. Giger, ma anche dalle opere letterarie di Franz Kafka e di Nikolaj Gogol’, dai film di Werner Herzog e di Federico Fellini (lo dice lo stesso Lynch). Un’architettura simbolica che ancora oggi viene studiata, alla continua ricerca ontologica e trascendentale di significati e spiegazioni. Divisivo e polarizzante sin dalla sua uscita, Eraserhead sfugge alle definizioni, ma in generale vi si trova un rifiuto della morale tradizionale. La trama: Henry scopre di aver messo incinta la propria ragazza i cui genitori lo obbligano a un matrimonio forzato. Il bambino nasce deforme e malato e dopo un primo periodo di convivenza con la moglie non riesce più a sopportarne la vista. Questo plot di base viene inframmezzato da sequenze oniriche e stranianti, che sono la cifra della grammatica sperimentale della pellicola. Lynch, oltre che dai propri gusti – le immagini, i suoni e gli odori dell’industria pesante di cui è appassionato in un accezione positiva –, prende anche spunto dalla propria esperienza personale, all’epoca in fase di divorzio dalla moglie, incapace di adattarsi al suo ruolo di marito e padre. Non fu facilissimo presentare il film al pubblico e alla critica che lo videro ai primi festival in cui venne proiettato senza apprezzarlo affatto. Il successo arrivò col tempo grazie alle proiezioni del circuito di mezzanotte, dove piano piano, spettatore dopo spettatore, il film crebbe, soprattutto grazie alle dichiarazioni di John Waters, che ne consiglio la visione al proprio pubblico. André Breton sosteneva che il cinema possegga un “pouvoir de dépaysement”, e proprio in questo sentimento di spaesamento e disorientamento si trova il vero, grande e liberatorio significato dell’opera di David Lynch che, oggi come ieri, non ha perso di un grammo della propria potenza espressiva. Un capolavoro del cinema che resiste ancora oggi e resisterà per sempre. W David Lynch, W il cinema.
recensione di Carmelo Garraffo
ALL YOU NEED IS DEATH di Paul Duane (2023)
Un orrore cosmico a combustione lenta che ti penetra nelle ossa come un brivido proveniente dal mare per plasmare la sua straziante meditazione su cosa significhi amare veramente qualcosa. Forse, un sentimento di cui si è perso il significato. Paul Duane immagina uno scenario in cui la vera natura dell’amore viene finalmente rivelata, e scavare nella ricca storia delle ballate popolari irlandesi fornisce una base molto forte su cui costruire il film. L’orrore qui non nasce dalle tipiche paure, ma da frammenti di un passato ancestrale che riemergono attraverso il canto, si compongono in un orribile puzzle e si fanno carne, mentre definisce l’amore come una forza vampirica che possiede e prosciuga. Un film da inzuppare nel cervello come una bustina di tè maleodorante, lasciando che disperda lentamente il suo fetore fino al nocciolo dell’orrore cosmico, che non sono bestie tentacolate o divinità inconoscibili, ma l’incomprensibilità della situazione stessa. Creare volutamente confusione in un film è spesso rischioso perché vuoi che gli spettatori capiscano cosa stanno vedendo, tuttavia Duane è in grado di trovare un equilibrio tra l’accentuazione dell’incomprensibile e un’esperienza horror tradizionale più che soddisfacente. Anche se alla fine, guardare All you need is death è davvero come ascoltare una canzone cantata in una lingua che non capisci: il divertimento sta nella sensazione che ti dà, più che nella storia che ti racconta. Un film meno interessato a spiegare tutto ciò che accade sullo schermo, quanto a instillare un senso di orrore strisciante nello spettatore. È l’esempio migliore di neo-folk horror che abbia visto negli ultimi tempi, uno che integra davvero quell’inconsapevolezza nella struttura del film per puntare a un finale che è un vero pugno nello stomaco.
recensione di Emiliano Zambon
GEORGE A. ROMERO’S RESIDENT EVIL di Brandon Salisbury (2024)
Nel 1998, a George A. Romero fu proposto di scrivere e dirigere un adattamento cinematografico del primo capitolo videoludico di Resident Evil. Un matrimonio ideale che, purtroppo, meno di un anno dopo vide il regista estromesso dal progetto, che passò a Paul W.S. Anderson e alla sua versione più orientata all’azione che avrebbe generato i sei film con Milla Jovovich. Cosa è successo e come sarebbe stata la visione di Romero? Il documentario si sforza di trovare risposte ad entrambe le domande, in modo abbastanza esauriente alla seconda e quasi per nulla alla prima. Capisco sia intrinsecamente difficile realizzare un documentario su qualcosa che, al di fuori delle pagine di un copione, non esiste. Inoltre, come sappiamo, Romero è morto nel 2017. Eppure non so davvero di quanti retroscena su Night Of The Living Dead e il suo impatto monumentale abbia bisogno un fan a questo punto. E probabilmente ancora meno di podcaster sconosciuti che discutono di esperienze personali con i film del regista e dell’incontro dal vivo con il loro eroe. Eppure il racconto prende il via con uno stuolo di anonimi personaggi che disquisiscono tutti eccitati dell’impatto rivoluzionario di Romero nel panorama horror. Dopo i titoli di testa, Resident Evil non viene più menzionato per circa venti minuti. I riferimenti a Romero vengono inizialmente infilati tra le pieghe dello sviluppo del successo per PlayStation, lungo capitolo che offre diversi spunti interessanti sul processo di progettazione del gioco e in cui interviene persino l’attore che interpretava Chris Redfield, riguardo alle riprese dei famigerati filmati live-action dell’opening. Anche se queste informazioni potrebbero interessare i giocatori più curiosi, non sono realmente rilevanti trattandosi di un documentario sul film, non sul gioco. Il capitolo sul coinvolgimento ufficiale di Romero come potenziale regista e sceneggiatore per un adattamento arriva dopo quasi un’ora! Capisco spesso i documentari richiedano un certo livello di background per creare contesto, ma insomma. E non parliamo dell’infinità in cui si sofferma sul film di Anderson. Alla fine, la vera trappola di questo documentario è che riesce a coprire solo un piccolo frammento dei dietro le quinte, una nota a piè di pagina, che non soddisfa abbastanza né dal punto di vista narrativo né come racconto scandalistico e ci lascia con la voglia di saperne di più. In un mese, Romero ha preparato una sceneggiatura. Ai responsabili non piacque e decisero di prendere una direzione diversa. Tutti poi sono andati avanti con le loro vite. Fondamentalmente è tutto. Nonostante la relativa assenza di commentatori con una conoscenza diretta del progetto, tuttavia, Brandon Salisbury ci mette il cuore e si vede. Con la sua divertente messa in scena che si rifà all’aspetto del gioco, riesce a fornire abbastanza dettagli per rendere il film sufficientemente informativo e a tratti persino emozionante. È un peccato non abbia avuto materiale più significativo su cui lavorare.
recensione di Emiliano Zambon
MARS EXPRESS di Jérémie Périn (2023)
Mentre ti ipnotizza con il suo splendido design dal sapore vagamente rétro (visivamente si colloca dalle parti di Ghost in the Shell e Moebius), questa chicca fantascientifica made in France svela il suo meticoloso world building e commercia in idee inebrianti anche all’interno di un genere in cui si è portati a credere che tutto ciò che riguarda i robot sia già stato ampiamente esplorato, trovando una freschezza e un’imprevedibilità nella formula che probabilmente non esisterebbe se fosse un live-action hollywoodiano. Non perde tempo a imboccarci verbose introduzioni e spiegoni, presentando semplicemente il futuro per quello che è, una megalopoli transumana piena di animali robot la cui pelle sintetica va rimossa e lavata regolarmente, comunicazioni mentali, cyborg sbronzi e un tessuto di proteste umane anti-robot con riferimento a un fatto di cronaca che costò molte vite. Si accenna a regole asimoviane, tuttavia Mars Express sembra più interessato alla controargomentazione: è abbastanza giusto stabilire una regola che imponga ai robot di non ferire gli esseri umani, però se l’intelligenza artificiale cresce e si sviluppa, non sarebbe ideale se anche i robot non venissero feriti e uccisi con leggerezza? E il senso di accelerazione verso un conflitto di classe teso e di grande impatto è disarmante. Con una colonna sonora vibrante che accompagna le splendide animazioni, il film di Jérémie Périn vince perché rimane un solido thriller cospirazionista con personaggi carismatici e ben delineati in uno sfondo fantascientifico ambientato su Marte brillantemente cesellato, brulicante di quel tipo di sfumature autentiche che danno forma a un’atmosfera vissuta e vitale. Il fatto che stimoli alcune riflessioni puntuali anche sul futuro dell’intelligenza artificiale è la ciliegina sulla torta.
recensione di Emiliano Zambon
CADDO LAKE di Celine Held e Logan George (2024)
Caddo Lake è un film ipnotico e complesso che vale la pena guardare sapendone il meno possibile. Uno con la capacità sempre più rara, oggi, di sorprendere davvero. Questo mondo strano e tragico, popolato da personaggi che cercano di fare i conti con le ombre del proprio passato, immerso in un paesaggio arcaico e misterioso, un vasto e inquietante specchio d’acqua in Texas splendidamente ripreso con toni oscuri e desaturati che sembra quasi un personaggio a sé, un luogo metafisico che incarna strati di storia e di dolore. Un thriller soprannaturale che intreccia traumi profondamente personali in una narrazione che fonde abilmente un dramma familiare con l’esplorazione psicologica del dolore e della perdita che deforma il senso del tempo. Occasionalmente perde il focus e diventa difficile tenere traccia di come si allineano le varie linee narrative. Tuttavia, per coloro disposti ad abbracciarne le complessità, il film di Celine Held e Logan George è come un puzzle che sfida le aspettative e premia la massima attenzione. Per chi apprezza i misteri con un taglio psicologico, Caddo Lake offre un’esperienza tesa e immersiva nelle profondità sconosciute della famiglia, del dolore e dello scorrere del tempo.
recensione di Emiliano Zambon
THE ELEPHANT MAN di David Lynch (1980)
The Elephant Man sottopone subito a giudizio due dei principali tratti somatici dell’Inghilterra vittoriana. L’idea che il progresso industriale e medico un giorno curerà i mali del mondo viene smentita durante una delle scene iniziali: lo scienziato (un meraviglioso Anthony Hopkins) Frederick Treves e un collega stanno operando in condizioni insalubri sulla vittima di un incidente sul lavoro quando il primo afferma che se la consapevolezza dell’igiene è migliorata, il controllo sulle macchine – che producono energia e liquami – è in un certo senso diminuito. In secondo luogo, la rappresentazione dello stesso John “Elephant Man” Merrick (ritratto con straordinaria dignità da John Hurt) – con la testa grossa quanto la vita di un uomo, la bocca storta, un braccio inservibile e il corpo invaso da mostruose eruzioni – stimola complesse riflessioni sulla natura del voyeurismo, sul sense of wonder e sull’osservazione scientifica come un antesignano ideale del body horror. David Lynch dirige questo film con sentimentalismo sincero e grande attenzione ai dettagli, scavando nel cuore della nostra coscienza sociale. Fa rivivere i diversi strati, il fascino e le facciate della Londra vittoriana offrendo uno sguardo unico di quell’era, dalle strade acciottolate e i mercati lerci fino all’opulenza dell’alta borghesia. Sotto il costante sibilo del vapore e lo sferragliare dell’alba dell’era industriale, The Elephant Man ha il potere e parte della logica onirica di un film muto. È la Londra dickensiana, con uno sguardo ai processi cinematografici d’avanguardia europei degli anni Venti e dei primi anni Trenta – molti dei quali provenivano, come Lynch, anche da un background di pittura e design – combinando un approccio sperimentale sull’immagine e sul suono, come quando la giovane madre di John finisce calpestata dagli elefanti mentre lo porta in grembo, e i suoni di quel momento nei suoi sogni si confondono con il lamento industriale della Londra vittoriana, le cui macchine daranno forma a loro volta a nuovi mostri; oppure i vapori, che sembrano addolcire ogni cosa come nuvole di Turner, ma con una denotazione venefica. Lynch fa sì che i bianchi e i neri fuligginosi delle linee di contorno non siano mai del tutto naturali, ma ricordino i toni della fiaba. Non sarà astratto come Eraserhead, tuttavia The Elephant Man ti accompagna attraverso uno stupore sereno e contemplativo in cui ti senti altrettanto ipnotizzato, in trance. La grazia nel lavoro del regista deriva dalla cura e la sensibilità con cui affronta la materia: nel trattare un film sull’esposizione e lo sfruttamento di una persona deforme, dev’essere stato determinato a non emergere lui stesso come uno sfruttatore. Il “mostro” è coperto o in ombra nelle prime sequenze, e ne vediamo solo alcune parti, un po’ per volta. Lynch accresce la nostra curiosità in modo del tutto naturale, e quando saremo pronti saremo ormai così partecipi che non ci sarà più alcun disgusto nel pieno svelamento della sua deformità. A quel punto risponderemo ai suoi sibili, ai suoi gemiti e ai suoi movimenti terrorizzati senza prestare più alcuna attenzione all’aspetto esteriore. Ai nostri occhi sarà solo una persona indifesa, vittima del suo tempo, costretta in una terribile gabbia di carne. Ancora prima che Merrick inizi a parlare con Treves, a recitare poesie e a rivelare la sua sensibilità romantica, saremo diventati suoi amici. Non è più una massa informe e grumosa, anzi, avvicinandoci e sintonizzandoci sulla sua impotenza, inizia a sembrarci molto esile, quasi una bambola. Non c’è niente di spaventoso in lui e non è nemmeno repellente. A quel punto, il suo corpo deforme e le protuberanze nodose sulla fronte suggeriranno quasi l’arte cubista o le distorsioni di Picasso. Il vero orrore viene da fuori. In questo film – come d’altronde quasi ogni opera di Lynch – lo schema visivo del regista è così fantasioso che trascende la storia, e scena dopo scena non sai davvero cosa aspettarti. Stai guardando qualcosa di nuovo: materiale subconscio che si agita nel formato di una narrazione convenzionale. Forse non c’è niente di più inquietante e palesemente erotico come quel momento in Eraserhead in cui i due amanti si sciolgono nel loro letto scomparendo nel fluido, ma anche qui succede qualcosa di indefinibilmente strano e seducente. Come nel sogno di John in cui gli elefanti calpestano la madre e la telecamera piomba sui corpi delle grandi bestie in strani movimenti panoramici che suggeriscono il modo in cui l’uomo, costretto a dormire seduto con la testa sulle ginocchia sollevate, sognerebbe, mentre la testa trema e sussulta. E nella serie di immagini forse più sfuggente, quando Merrick realizza l’ambizione di una vita partecipando alla rappresentazione de Il gatto con gli stivali a teatro, e lo spettacolo diventa una fantasia di trasformazioni magiche, con anatre, cigni di carta, leoni e fate che volano sui cavi e persone con zampe da cavallo. Non sei sicuro di ciò che stai vedendo, come ricordi sconnessi delle prime storie che ricordi da bambino. Le creature – animali, umani, uccelli, spiriti – si mescolano insieme, e i frammenti di glitter che cadono hanno la qualità onirica del mondo capovolto in una palla di vetro. Quella notte, più tardi, quando John, nella sua camicia da notte, liscia le lenzuola bianche e pulite e si prepara a dormire per la prima e ultima volta come una persona normale nel suo letto, il suo corpo sembra senza peso. È pronto a lasciarlo.
recensione di Emiliano Zambon