Ben quattro anni separano quest’ultimo lavoro a firma Oranssi Pazuzu dal suo predecessore, Värähtelijä, anni che i finlandesi non hanno certo trascorso nell’inedia: si ricordi l’ambizioso progetto Waste Of Space Orchestra, condiviso con i Dark Buddha Rising, nato e consumatosi sulle assi del palco del prestigioso Roadburn Festival. A ciò si aggiunge il passaggio dalle sapienti mani della Svart Records alla Nuclear Blast; tale evento avrà suscitato indubbiamente preoccupazioni in quanti rilevano nella transizione ad una realtà di maggior impatto mediatico la minaccia di un potenziale depauperamento del sound sinora sviluppato dalla formazione. Mestarin Kynsi tuttavia non mostra alcun segno di cedimento rispetto alla lisergica poetica propugnata dai Nostri. Ed anzi, potremmo affermare come ne rappresenti un ulteriore sviluppo, un’incarnazione che nulla ha da concedere all’accessibilità ed all’immediatezza di fruizione.
I sette brani che danno corpo al platter sembrano prender vita dalla dimensione che più sembra addirsi ai finlandesi, ovverosia quella dell’improvvisazione: sin da “Illmestys” osserviamo brevi pattern melodici ricorrenti calarsi in un sottofondo elettronico ovattato e persistente, culminante in un riffing spiraleggiante che ne segue l’andamento. Gli unici elementi ascrivibili a suggestioni estreme sono qui le allucinanti ed aspre linee vocali, fornenti al paesaggio sono qui delineato tratti da trip malsano. Segue un’apparentemente più vellutata “Tyhjyyden sakramentti”, popolata da vibes settantiane ma ben presto avviluppantesi in un caleidoscopico tripudio di chitarre nervose, pelli e vocalizzazioni malsane. “Uusi teknokratia” – da cui peraltro è stato tratto un videoclip che non può non ricordare il lavoro Fritz Lang – costituisce probabilmente uno degli episodi più fruibili del platter – sebbene, mai come in questo caso, il termine debba essere necessariamente preso con le pinze – grazie a pattern chitarristici più facilmente assimilabili, suggestioni kraut ed una struttura che arriva persino a sfiorare la forma canzone. L’incipit orientaleggiante di “Oikeamielisten Sali” ci trascina fuori dal delirio distopico appena delineato per riportarci, attraverso archi distorti ed un tappetto di synth dal sapore psichedelico, in uno dei brani più arabescati e complessi del lotto, ricco di dissonanze nonché ritmiche macilente e disturbanti. In “Kuulen ääniä maan alta” tornano a fare capolino impressionistici tratti industriali, disegnanti persistenti intrecci melodici in grado di donare persino un vago sentore angosciante e melanconico alla conclusione della composizione. La chiusura è affidata a “Taivaan portti”, esordiente con un muro di blast e corde, ben presto penetrato dalle drogate armonizzazioni ormai ben familiari, che tuttavia non smorzano il senso di oppressione e gravosità che si respira nel corso del traccia; potremmo volendo considerare tale brano come il più estremo e straniante: non vi sono allentamenti atmosferici, tutti gli elementi conflagrano in un unico tripudio di immagini abbacinanti, e da naufraghi sfuggiti ad una tormenta giungiamo al termine dell’ascolto con l’impressione di aver sfiorato soltanto la superficie di quanto gli Oranssi Pazuzu hanno in serbo per noi.
Appare dunque un lavoro che si nutre di pattern ricorrenti, elementi ricompresi ed esplorati nelle loro variazioni, quasi seguendo una traccia sulla scorta di un libero sforzo creativo improvvisato. Ed è proprio tale caratteristica a renderlo difficilmente maneggiabile, a far smarrire facilmente l’ascoltatore in una foresta di simboli quasi di baudelairiana memoria. Pur potendo risultare maggiormente essenziale rispetto al precedente Värähtelijä, non suona affatto maggiormente decifrabile o metabolizzabile, richiedendo una lunga serie di ascolti per poter essere quantomeno accolto. Ancora una volta gli Oranssi Pazuzu perseguono una direzione artistica che non si lascia ingabbiare in definizioni ed etichette di sorta, un puro e incondizionato afflato compositivo che risulta a un tempo coerente rispetto a quanto realizzato in precedenza ma, allo stesso tempo, con importanti tratti di divergenza. È lecito dunque supporre che i finlandesi siano lungi dall’aver esaurito l’alchimia del proprio creato e che, dopo averci regalato uno degli album migliori dell’anno, possano essere ancora in grado di sorprenderci, Nuclear Blast o meno.
(Nuclear Blast, 2020)
1. Ilmestys
2. Tyhjyyden sakramentti
3. Uusi teknokratia
4. Oikeamielisten sali
5. Kuulen ääniä maan alta
6. Taivaan portti