L’etichetta finlandese Svart Records punta sempre di più su proposte particolari, sia che si tratti di ristampe di gruppi di nicchia che far conoscere nuove realtà altrettanto peculiari. I Pelagos giocano in casa pubblicando il loro secondo disco The Boat, seguito dell’esordio Revolve di qualche anno prima. Questo ensemble di musicisti, sebbene sia recente, vede diversi personaggi che fecero parte del collettivo underground avant-rock chiamato Circle, fondato nel lontano 1991, una sorta di progetto modello King Crimson dove entravano ed uscivano musicisti a getto continuo ed in cui figurava il perno sotto il nominativo di Jussi Lehtisalo. La loro musica era ermetica, sperimentale ed era rinchiusa in un universo sonico astratto ed inclassificabile, durato circa quindici anni. I Pelagos mantengono molto quella venatura folle ed anticonformista e “la barca” del titolo simboleggia proprio una sorta di viaggio sonoro dato che la corposa mole di tracce presenti nel disco hanno una moltitudine di sfumature che necessiteranno di molti ascolti per essere interiorizzate.
Il sottoscritto odia le recensioni track by track ma durante l’ascolto di questo album era caduto in tentazione, poiché ogni brano ha una sua personalità nella maggior parte dei casi. In situazioni estreme come questa bisogna fare lo sforzo ancora maggiore per non cedere. Il trip si apre con il canto celestiale di “A Song From The Rain” che trasporta l’ascoltatore in un universo molto kraut rock con quella chitarra che delinea misticismo space rock (suoni e rumori psichedelici sono all’ordine del giorno) a suon di riff oscuri e wah wah acidi. La durata però è molto esigua quasi fosse una intro per poi dipanarsi in mille direzioni fra mantra ossessivi psych (“Tree In A Dream”), drogate melodie alla Pink Floyd (“Toxic Light”) ed ipnotiche incursioni electro/psichedeliche (“A Fade Out Vessel”). Non ci si adagi sugli allori perché rimangono moltissimi brani ed è complicato descrivere a parole tutti i dettagli. La band ha molte idee, forse troppe e non si tira indietro nel mettere sul piatto continui cambi di atmosfera anche nella stessa canzone. Si rimane incantati dalle visionarie e futuristiche “Zest” (con i suoi synth e voci aliene) e “An Invitiation” (molto new wave ottantiana a base di chitarre gelide, rituali vocali e quel groove malato che si insinua sottopelle) che danno quella sensazione orgasmica senza rendersene conto per poi martellare senza pietà con le linee di basso tetre del rumoroso industrial di “Machine City” che fa coppia con i ritmi robotici contenuti in “Swan Egg” fino alla chitarra dreamy dell’eleganza pop/AOR della splendida “Grey by the Sea”. L’atmosfera che si crea richiama sicuramente il periodo florido della decade acida ‘65 ’75 ma lo porta ad un nuovo livello richiamando la scena avant-garde anni ‘90 (il tornado emozionale “Moon Confessions” disperso nella distorsione ed in morbide melodie) e le nuove derive del progressive rock moderno o anche dell’art rock di esponenti come Riverside e Porcupine Tree ben evidenziate nelle complessità cerebrali ma comunque pop delle lunghe “Atlanta” e “An Ocean To Disappear”. E’ una musica colta, raffinata con una classe, nella composizione e nelle esecuzione, che merita la giusta attenzione e sorprendentemente può essere fruibile facilmente da diverse frange di ascoltatori.
Disco difficile ma che allo stesso tempo tende la mano riuscendo nell’ardua impresa di essere comprensibile da chiunque con poco sforzo. Unico neo è il fatto che bastavano meno ingredienti.
(Svart Records, 2021)1. Song for the Rain
2. An Invitation3. Zest4. Tree in a Dream5. A Fade Iut Vessel6. Grey-by-the-Sea7. Machine City8. Toxic Light9. Moon Confession10. Swan Egg11. Atlanta12. An Ocean to Disappear