L’evoluzione artistica della musicista romana Lili Refrain ha raggiunto dei livelli intimi e personali non così scontati. Il sottoscritto ha avuto modo di ammirarla nuovamente live in occasione del Roadburn Festival dove ha proposto l’esecuzione di questo nuovo album, Mana, il quinto della sua carriera in circa quindici anni. Un disco che poggia molto su concetti ed ideologie più che su “musica”; un’opera che si discosta dalla forma canzone per abbracciare una via ancora più ritualistica e spirituale. Mana significa “forza della vita” o anche “forza interiore” che ognuno ha per intraprendere il proprio viaggio nel mondo ed in effetti il disco è una sorta di concept, un pellegrinaggio alla scoperta di noi stessi senza che si percepisca una pausa fra un pezzo e l’altro. Nato in maniera spontanea, ed allo stesso tempo con tanta voglia di sperimentare, questo album vede una moltitudine di colori e suoni anche grazie all’utilizzo di synth e percussioni.
Analizzando il processo compositivo, negli anni la musica di Lili è partita da solide basi blues (nell’omonimo disco del 2007) per poi dipanarsi in qualcosa di più viscerale. Già con il secondo disco, 9, entravano in gioco delle atmosfere rarefatte e cerimoniali dove l’elettricità creava dei cupi affreschi sonici decisamente gotici. KAWAX è stato forse il trampolino di lancio per quello che sarebbe arrivato dopo, inglobando un doom carnale e raffinato ed un attitudine sciamanica. ULU del 2020 è la svolta definitiva, un’unica traccia di oltre venti minuti pregna di misticismo folk, psichedelia e tutti gli elementi cari alla musicista. L’opener di questo nuovo disco, “Ki” (il soffio dell’energia vitale secondo la disciplina giapponese Aikido) riparte proprio da lì: un intro solenne dai toni liturgici che esplodono in un turbine vocal/corale dall’animo pagano che sviluppa delle stratificazioni dove synth, cantato etereo ed atmosfere etniche si fondono in un sound misterioso ed arcaico (“Kokyou”, l’estensione del già citato Ki sempre secondo l’Aikido) che richiama alla mente gli affreschi antichi di colleghi come Wardruna, Myrkur ed Heilung. Lili trova comunque una sua personalità lanciandosi in danze pagan/oniriche (“Eikyou”, traducibile in “avere influenza su”) grazie a percussioni tribali e camaleontiche influenze sia orientali che europee. La maturazione è evidente e palpabile, non solo nella composizione ma anche nel cantato sempre più impressionante per varietà e potenza passando da modelli quasi da sacerdotessa drone (nel crescendo di “Ichor”, la sostanza che compone il sangue delle divinità, con i suoi campanelli e le voci celestiali) ad ammaliante sciamana (“Mami Wata” o divinità della acque marine, uno dei rarissimi interventi doom) fino ad uno spirito inquieto (“Sangoma”, traducibile in “sciamana” secondo la cultura tradizionale africana Nguni). Il trip prosegue in una musica fuori dal tempo dove velenose ed enigmatiche melodie si insinuano sottopelle (“Ahi Tapu”, un possibile richiamo alla cultura Maori) sfruttando la chitarra elettrica con il contagocce (la distorsione della sinuosa “Travellers”) fino alla chiusura corale del cerchio nella magnifica “Earthling”.
Un disco di grande musica, uno dei punti più alti della discografia di Lili Refrain, da ascoltare rigorosamente in tranquillità senza distrazioni. Da avere!!!
(Subsound Records, 2022)
1. Ki
2. Kokyou
3. Eikyou
4. Ichor
5. Sangoma
6. Mami Wata
7. Ahi Tapu
8. Travellers
9. Earthling