VIDEO NASTY è un termine coniato in Inghilterra negli anni 80 dal comitato censura per indicare i film da VHS che avevano un contenuto violento o comunque mal visto.
Questa nuova rubrica parla di cinema ed è a cura di Carmelo Garraffo ed Emiliano Zambon.
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COMPANION di Drew Hancock (2025)
Se volessimo descrivere l’incipit del film potremmo scrivere: “tre coppie di amici si ritrovano a passare dei giorni in una casa isolata fuori città fino a quando, uno di loro, non morirà”. Non sarebbe una bugia ma sarebbe il modo sbagliato di descrivere questo film che in realtà parla di altro e, sopratutto, inizia con una confessione della nostra protagonista, una Sophie Thatcher ormai lanciatissima come nuova hit girl (e ne siamo contenti), che ci introdurrà al racconto curiosi di capire cosa succederà. Insomma c’è lei che già dal poster ci fa capire che non è proprio la persona che sembra e questo è uno dei temi del film che, state tranquilli, non riguarderà solo lei. L’altro grande tema del film è quello del possesso e controllo all’interno di una coppia. Insomma, Companion è un “horror di metafora” (con tocchi di commedia). In questo caso la metafora è sociale, un po’ come si era visto nel più recente L’uomo Invisibile (2020? È già passato così tanto? se non lo avete visto recuperate) in cui il genere veicolava molto bene una storia di denuncia verso un certo stalking maschile. Qui l’operazione è simile, e pur non reinventando la ruota, a parer mio funziona per la maggior parte del tempo, grazie anche al tono e al fatto che al di là della metafora rimanga saldamente un film di genere che funziona anche senza pensare a cosa c’e sotto. Dura un ora e mezza, che di questi tempi è un lusso, e vola via senza annoiare. Da noi è uscito al cinema alla fine di Gennaio e forse lo trovate ancora in qualche sala.
recensione di Carmelo Garraffo
GRAND THEFT HAMLET di Pinny Grylls, Sam Crane (2024)
Grand Theft Hamlet è un oggetto molto curioso arrivato in questi giorni in streaming su MUBI dopo aver girato festival e vinto premi lo scorso anno. Se ne parla come di un capolavoro abbastanza geniale e l’opera ha effettivamente un sacco di meriti nonostante, se lo chiedete a me, non sia proprio così straordinaria. Ma andiamo con ordine. GTH (abbreviamo) è un documentario girato interamente dentro GTA Online. Per chi non sapesse cosa sia GTA Online (vivete sulla luna?) stiamo parlando della controparte multiplayer del videogioco più famoso della storia dei videogiochi (GTA, Grand Theft Auto) che conta un numero infinito di giocatori che si spostano dentro questa città californiana fittizia facendo cose che riguardano, per lo più, lo spararsi addosso. Il documentario in questione parla di due attori che durante il periodo del lockdown, soli e isolati, mentre giocano a GTA Online, trovano un teatro all’aperto nel mondo di gioco che gli fa scaturire un idea: “qualcuno ha mai messo in scena l’Amleto di William Shakespeare all’interno del mondo di GTA? Facciamolo!”. Parte quindi una storia in cui i nostri cominceranno a conoscere gente, fare audizioni e imbastire delle prove per il grande evento nel bel mezzo di un mondo virtuale dove alla gente sembra interessare solo spararsi un lanciarazzi sulla faccia. Ovviamente, leggendo tra le righe, capiamo presto che per tutte queste persone coinvolte si tratta più che altro di un modo per trovare uno scopo in un mondo, quello esterno, che in quel lungo periodo non aveva nulla da offrire, perlomeno meno di quanto potesse fare quello virtuale. I nostri protagonisti finiranno quindi per fare strambe amicizie fino a quando il mondo, quello vero, comincerà a riaprirsi creando una sorta di crisi e confusione su cosa sia importante, se il progetto o quello che fuori sta cominciando a ripartire. Le riflessioni che l’opera riesce a fare sono sicuramente molto interessanti, e ci parlano meglio di altri prodotti di un periodo storico molto particolare, e lo fa solo ed esclusivamente tramite riprese all’interno del mondo di gioco e se l’idea è ottima per me i suoi pregi si scontrano con i i suoi difetti. Mi spiego. Questo progetto ha avuto sicuramente un impatto diverso vissuto in tempo reale e guardarlo postumo vuol dire viverlo attraverso la partita di qualcun’altra che ha il vantaggio dell’interattività, che è il grande plus che il media videoludico ti mette a disposizione. Io sono un videogiocatore e in quanto amante del cinema spesso mi ritrovo a muovere le levette della visuale cercando di ricreare una finta regia, di inquadrare quello che mi sta intorno in un certo modo per soddisfazione estetica personale. Molti videogiochi moderni hanno introdotto la “modalità foto” esclusivamente per questo, perché amano creare delle belle immagini grazie al sistema di gioco che lo permette e alla sua libertà di interazione. Il problema di GTH è che esteticamente è spesso molto confuso e si vede che quelle immagini le ha girate qualcuno che non ha videogiocato molto o che, comunque, non ha sfruttato il potenziale che il mezzo videoludico gli dava a disposizione. Per vivere bene questa esperienza in modo passivo ci sarebbe stato bisogno di una simil regia vera, qualcuno che quelle immagini le avesse sapute girare e montare in modo un po’ più fluido e coinvolgente. Insomma. non vi aspettate di vedere “un film girato dentro GTA” perché non lo troverete. Spesso risulterà confuso come se l’audio e il video fossero sconnessi. Come se stessi ascoltando un podcast con sotto dei brutti gameplay montati per darti un senso generale di cosa si sta parlando. Che non è assolutamente un problema mentre sei tu a viverlo con un joypad in mano ma lo diventa nel momento in cui non lo hai. Di base GTH è un documentario molto interessante che funziona più per quello che dice che per quello che mostra e, da videogiocatore di lunga data, penso che dal lato visivo si potesse fare qualcosa di più. Ma magari non siete videogiocatori e di questa pippa mentale non ve ne frega veramente niente. Recuperatelo!
recensione di Carmelo Garraffo
THE GIRL WITH THE NEEDLE di Magnus von Horn (2024)
Se come il sottoscritto siete appassionati di cinema (se mi state leggendo probabilmente si) sarete sicuramente incappati su internet in qualche sponsorizzata di questo film che lo descrive come “la cosa più bella del mondo” (non è vero, non dice questo ma ci siamo capiti). Insomma, è un film di cui si tessono molte lodi ma di cui io sono un po’ critico. Probabilmente la verità risiede nel fatto che MUBI lo ha messo in catalogo (da noi è uscito direttamente in piattaforma) e quindi in qualche modo lo dovrà pur spingere ma, anche qui, è una mezza bugia perché ne si parla bene in generale e, insomma, avrete capito che sto cercando qualsiasi pretesto per dirvi perché, per me, non è esattamente quello che si dice in giro e siccome l’analisi critica è fatta di discussione e confronto, anche controcorrente, ora vi dico la mia. The Girl with the Needle è un buon film che ha dei problemi. Prende ispirazione da una storia vera, dove per storia vera si intende che costruisce una storia di fantasia intorno a un fatto realmente accaduto. Il fatto realmente accaduto è un qualcosa che in promozione viene detto apertamente ed il fatto che nell’economia del film questa rivelazione arrivi nel terzo atto dovrebbe far intuire che il ritmo non sia proprio dei migliori, ed è qui per me che il film ha dei problemi. Eviterei di fare degli spoiler ma se lo fa la cartellonista e il trailer stesso non vedo perché debba lesinarmi io, sopratutto se serve a presentarvi il film. La storia narra di Karoline, una giovane operaia che vive in una Copenaghen del dopoguerra, nel 1919 per esattezza. Si dichiara vedova di guerra e rimane incinta del suo datore di lavoro che, ovviamente, la scaricherà. Nella povertà più assoluta vuole liberarsi del bambino e finirà per chiedere aiuto a un altra donna con cui instaurerà un rapporto particolare, donna ispirata (eccoci) a una famosa serial killer del periodo, omicida di bambini. Come dicevo questa rivelazione arriva molto tardi e il ritmo lento e il tono freddo della narrazione ha reso la visione, per me, soporifera e priva di emozione alcuna. Si dice che sia molto forte e crudo, forse per un paio di sequenze che potrebbero disturbare qualcuno, ma nulla che uno spettatore medio di film horror non abbia mai visto. Per il resto è girato in bianco e nero in modo molto estetizzante. Non è una critica, il film è molto bello da vedere, ma ritengo sia sempre un peccato quando i fan di un film finiscono per parlare principalmente di una cosa per difendere il film e questa cosa è l’estetica. Di certo la sua fotografia lo esalta e alcuni passaggi sono graditi ma nel complesso stiracchia davvero molto e annoia più di quanto sia lecito aspettarsi da una storia di questo tipo che vorrebbe farsi portatore di diversi messaggi: parlare degli ultimi, degli abbandonati e dei marginalizzati e il messaggio non riesce ad arrivare potente come si meriterebbe. Insomma, bene ma non benissimo.
recensione di Carmelo Garraffo
GRAFTED di Sasha Rainbow (2024)
L’accostamento a The Substance è quasi scontato: entrambi affrontano temi simili, dal body horror alla biotecnologia, al modo in cui soccombiamo agli standard di bellezza della nostra società. Tuttavia ridurre Grafted a un rip-off del film di Coralie Fargeat sarebbe ingiusto nei confronti di una sceneggiatura che riesce a fare qualcosa di interessante con certi tropi familiari, e a imbastire un’opera piuttosto originale e sentita, anche se fallisce in un aspetto cruciale. Forse una delle cose più importanti da dire sul film di Sasha Rainbow è che non funziona davvero come la mediazione sugli standard di bellezza che pretende di essere ma sembra più innestato sull’esperienza di una bambina immigrata che fa del suo meglio per adattarsi. Costantemente sminuita dalla cugina nata all’estero per il suo attaccamento alle tradizioni cinesi, e derisa dalle compagne di scuola non per le grandi voglie sul viso, ma per il cibo che mangia e l’altarino che ha eretto in memoria del padre defunto. Pertanto risulta difficile leggere la rabbia oscura della ragazza prettamente come la ricerca di un canone estetico e non soprattutto come un disperato tentativo di assimilare una cultura che non la accetta per quello che è. La questione delle voglie viene accantonata relativamente presto, ma il film continua a insistere sul fatto che il suo vero desiderio sia di curare la sua “deformità”. Questa confusione concede poco alla trama e ai personaggi di respirare, frustrando un po’ lo spettatore nell’inquadrare il tono del film dai suoi prima 30 minuti. Per fortuna, le cose cambiano quando la follia di Wei infiamma la trama che si fa via via sempre più imprevedibile, selvaggia e divertente. Grefted non è un film davvero spaventoso, ma uno in grado di generare un certo disagio e disgusto, riuscendo ad apparecchiare situazioni tese e immagini piuttosto forti: immagini che ci divertono nel loro orrore, sia perché in fondo tifiamo per Wei, sia perché deliziosamente punk e grottesche nella messa in scena. Peccato solo si macchi di un finale particolarmente ingiusto; uno che, senza troppi spoiler, punisce il suo personaggio principale senza essere davvero riuscito a convincerci di meritarselo. Certo, Wei fa delle cose orribili, ma possiamo davvero criticarla per avere solo voluto sentirsi a casa?
recensione di Emiliano Zambon
WOLF MAN di Leigh Whennell (2025)
Con The Invisible Man, Leigh Whannell seppe aggiornare il classico Universal del 1933 apparecchiando un efficacissimo thriller sulle relazioni sentimentali tossiche nel XXI secolo. Cinque anni dopo ci riprova con Wolf Man e i traumi generazionali, con risultati magari più modesti ma che meritano senz’altro un’occasione. Come l’originale del 1941 era fortemente legato al tema della morte, del dolore e di un amore infranto, questa nuova iterazione abbraccia il tropo dei “peccati del padre“ e dimostra che forse c’è più di cui avere paura in un mostro che cerca di sbranarti. Come un premuroso padre di famiglia che a poco a poco perde la bussola terrorizzato dai traumi di un lontano passato familiare che irrompe brutalmente nel presente. E insieme a una moglie che si sente distante dalla figlia, il film descrive una famiglia che prova amore reciproco ma non è sicura di come esprimerlo, e più il padre soccombe al suo istinto animale, più è doloroso guardare madre e figlia ritrovarsi nella tragedia. Perché come in ogni buon film di lupi mannari che si rispetti, parte del successo dipende dalla trasformazione. Questa nuova versione sposta l’attenzione dalla maledizione della luna piena, su una misteriosa malattia che le tribù indigene chiamano il “volto del lupo” e si manifesta attraverso piccoli ma dolorosi cambiamenti nel tempo, un’evoluzione a fuoco lento, come fasi lunari. Wolf Man alla fine si rivela un buon film, spaventoso quanto basta, emotivo ma senza sentimentalismi. Si ha un po’ l’impressione che tutto accada troppo in fretta e che avrebbe giovato di una finestra temporale un po’ più ampia, così come di indugiare più nel melodramma dell’orrore fisico, del mutamento, proprio come riesce a trasmettere efficacemente la tragica situazione familiare, eppure, nonostante tutto, Whannel dimostra ancora una volta che i reboot dei mostri Universal funzionano meglio quando provano ad adattarsi allo spirito del tempo, tentando nuove direzioni che tuttavia abbraccino e onorino l’originale.
recensione di Emiliano Zambon
THE CREEP TAPES di Patrick Bryce (2024)
Realizzata dalla stessa crew dietro i due lungometraggi originali, questa serie antologica si posiziona come espansione di quel viaggio poco ortodosso nella folle psicologia del serial killer brillantemente interpretato da Mark Duplass. C’è qualcosa di sporco e vagamente sbagliato nel guardare The Creep Tapes, come se ogni episodio fosse davvero la registrazione di un omicidio sbucata fuori da qualche parte oscura di Internet, non adatte alla visione pubblica. Impostati sulla collezione di vhs del killer con la loro bella sfilza di situazioni in cui collocare vittime sempre differenti, gli episodi sono ben strutturati e presentano tutti gli ingredienti che hanno decretato la riuscita dei film, ma che allo stesso tempo rischiano di far scivolare la serie nel risciacquo e nella ripetizione formulaica senza una vera e propria direzione. Per fortuna, dopo quattro episodi così, decide di puntare dove speravo sarebbe andata a parare sin dall’inizio, riuscendo in un paio di efficaci episodi finali a espandere la lore e a fornire dettagli importanti rimasti in sospeso nei due film riguardo al motivo che lo spinge a uccidere e chi sta tirando davvero i fili, stabilendo un punto di riferimento completamente nuovo per il franchise.
recensione di Emiliano Zambon