Del Fuoco è la quarta fatica discografica dei Threestepstotheocean – ne abbiamo parlato su queste pagine e nella medesima sede approfondiamo qualche dettaglio con Francesco e Giacomo, rispettivamente tastierista e bassista del quartetto post-rock milanese.
Ciao ragazzi, benvenuti su Grind On The Road! Un’introduzione per i nostri lettori e per chi ancora non vi conosce: come e quando sono nati i Threestepstotheocean e cosa lega i suoi membri a questo progetto?
Francesco: Ciao a tutti, suoniamo insieme dal 2007, pur con un paio di cambi di formazione. Abbiamo fatto cinque dischi e tanti concerti. Ci siamo formati condividendo l’idea di un certo suono, ma direi che oggi il collante principale è il rapporto umano di amicizia che c’è tra noi.
Sono passati più di sei mesi dalla release del vostro quarto album Del Fuoco – cosa contraddistingue questo lavoro dai precedenti? non potendo suonare dal vivo per causa pandemica, quali sono le strategie che avete adottato per promuovere questo lavoro?
Francesco: E’ il disco che ci ha preso più tempo, quello che sentiamo più solido e forse anche il più semplice da assimilare. Non sappiamo bene il perché, ma ci siamo ritrovati nuovamente alle prese con pezzi lunghi e, in questo caso, anche piuttosto ossessivi e ripetitivi. Per promuoverlo, da un lato ci siamo affidati ad Antigony Records, dall’altro abbiamo ripreso a usare Bandcamp con cognizione di causa, rendendolo uno strumento per noi sempre più imprescindibile.
Giacomo: Come dico spesso Del fuoco è un disco “anti-creativo”. Rispetto ai precedenti non è caratterizzato da arrangiamenti eccessivamente ricchi, cambi di tempo, incastri particolari. Abbiamo preferito inseguire l’idea di un disco ossessivo, lasciando spazio a un certo mood per noi “rituale”. Dal lato promozionale aggiungo che con Del Fuoco è arrivato anche il nostro primo “official video” in assoluto. “Notte in pieno giorno” è interamente autoprodotto, diretto e girato da Davide (batteria), scritto e interpretato da noi. Penso racconti perfettamente la storia del brano e dell’intero disco.
Parliamo delle etichette che vi stanno aiutando a diffondere la vostra musica. Se non sbaglio, in passato avete già collaborato con Tokyo Jupiter, come sono nati i rapporti con questa storica etichetta giapponese? E cosa potete raccontarci della nostrana Antigony Records?
Giacomo: Con Kimiyuki di Tokyo Jupiter abbiamo già collaborato per l’uscita del precedente Migration Light. Kimi è un grande appassionato e dobbiamo a lui non solo parte della riuscita di quel disco, ma anche il nostro rocambolesco viaggio in Giappone del 2017. Kimi é stato il primo, fuori dall’Italia, a rispondere ad una nostra manifestazione di interesse per la co-produzione del disco.
Antigony rappresenta invece per noi la prima esperienza con un’etichetta che si è occupata in toto di tutti gli aspetti di pubblicazione e comunicazione legati a un nostro lavoro. Ciò che sicuramente vale la pena di sottolineare è che Francesco ed Alex hanno da subito compreso la nostra necessità di mantenere uno stile e un’identità di gruppo che si è costruita in anni di percorso. Questo è l’aspetto più importante per noi. Grazie ad Antigony abbiamo ripreso anche a curare un po’ la nostra comunicazione che, seppur sempre scarna, è tornata ad essere più attenta e curata.
Per cause di forza maggiore i concerti sono ora più che mai rari e preziosi. Cosa ne pensate del “nuovo” trend dei live-stream a pagamento?
Francesco: Ci piacciono molto i video in cui le band suonano live, tipo KEXP, Audiotree… ormai ci sono moltissimi canali. E’ il live-streaming inteso come surrogato di concerto “in diretta” che non ci appassiona particolarmente. Io sinceramente non ne ho mai visto uno (live), e non per questioni economiche legate giustamente a un biglietto. Uno streaming live per me non sostituisce il rito di un concerto, a quel punto preferisco guardarmi e godermi un video live quando voglio, e supportare la band comprando dei dischi.
Giacomo: è un tipo di prodotto da cui siamo un po’ distanti. Nulla in contrario con chi si è lanciato in queste esperienze, anzi. Considera però che noi veniamo da un mondo fatto di piccoli-medi club, centri sociali, a volte cantine. Per noi il concerto non può essere scisso dalla sua dimensione fisica. Negli ultimi tour io e Andrea suonavamo, anche per ragioni tecniche, quasi sempre giù dal palco in mezzo al pubblico. Suoniamo a volumi alti, a volte gridiamo, cerchiamo il contatto con chi ci ascolta. E’ ovvio che non è la stessa cosa, per noi il concerto è più un rituale collettivo che una performance, va da sé che un nostro concerto in altri modi, non può funzionare. Per noi e per il pubblico.
Vi va di raccontarci l’ultima volta che siete saliti su un palco?
Francesco: Era il 19 gennaio 2018 al Bloom di Mezzago insieme ai nostri amici Selva, Telos dalla Danimarca e Spleen Flipper. Avremmo dovuto presentare Del fuoco sempre al Bloom lo scorso dicembre, ma purtroppo le cose sono andate e stanno andando diversamente.
Nella vostra musica si può spesso percepire un orientamento “cinematic” – in questo senso quali sono le influenze cinematografiche che vi hanno maggiormente ispirato?
Giacomo: non penso che il cinema abbia giocato un ruolo chiave per l’elaborazione di Del Fuoco, almeno non come lo fece, forse, per i precedenti dischi. In generale siamo tutti e quattro decisamente appassionati della settima arte. Sicuramente qualcosa di questa passione rientra anche in Del Fuoco. Personalmente sono molto affascinato del cinema degli anni ‘20 (Il Gabinetto del Dottor Caligari su tutti), poi in maniera poco originale, potrei citarti il Tarantino del controverso The Hateful Eight, Inarritu di The Revenant e il Ridley Scott di Blade Runner e su tutti Robert Eggers con The Witch e The Lighthouse. Penso che il filo conduttore del cinema che mi piace sia sempre una certa idea di desolazione e che quest’ultima sia passata anche in Del Fuoco.
Tornando in ambito prettamente musicale, quali sono i gruppi che apprezzate maggiormente e che più vi stimolano a livello nazionale e internazionale?
Giacomo: Personalmente negli ultimi anni sono molto affascinato dal mondo della musica extra-occidentale. Cerco di fare ricerca e prendere spunto da li. Trattandosi il più delle volte di musiche tradizionali è difficile rintracciare un artista in particolare. A livello di band gli ultimi mesi li ho passati macinando i dischi di Sherpa e Pleiadees (nostrani), The Black Heart Rebellion (dal Belgio), Myrkur (nordic folk). Restano poi un punto fermo i Russian Circles: risposta poco originale ma lo stile di Brian Cook è indubbiamente una grande ispirazione per il modo in cui suono il mio strumento.
Francesco: Dipende. In questi periodo sto ascoltando il nuovo disco dei Fine Before You Came, mi piace molto e credo abbia i migliori testi che abbiano mai scritto. Poi da un po’ di tempo sono in fase Wilco. Altri dischi che stanno girando in questo periodo sono History of the Future dei Watter, Teenage Terrified degli Hamburger e Leeds dei Self Defense Family.
La scelta di non presentare nessuna lirica è sempre molto ambiziosa per una band. C’è una motivazione specifica per cui preferite mantenere la vostra musica strumentale? Cosa vi interessa esprimere principalmente con le vostre note?
Francesco: Suoniamo strumentali dal 2007, abbiamo iniziato e continuato così fino ad ora, è un fatto su cui sinceramente non ci poniamo più molti interrogativi. Piuttosto cerchiamo sempre, a ogni disco, di andare un po’ più avanti. Da questo punto di vista, non avremmo dubbi a inserire una voce se ne fossimo pienamente convinti, se desse qualcosa in più. Sono sicuro che un giorno avremo una cantante. Anzi più di una. E un’intera sezione fiati.
Un gioco abbastanza ricorrente nelle interviste, è quello di stabilire una manciata di album da portare su un’isola deserta. Vi propongo una variante: siete a casa in lockdown, improvvisamente la tecnologia implode parzialmente su se stessa e siete privati dell’internet fino alla fine dei vostri giorni. E’ l’apocalisse. Quali vinili mettete sul piatto?
Giacomo: Dal momento che in casa ascolto pochissima musica in digitale il gioco è facile. Ti dico che non posso fare a meno di Skeleton Tree di Nick Cave e di Bruto Minore dei Ronin: hanno decisamente salvato il mio “smart” working.
Francesco: Disintegration Loops di William Basinski e The Bees Made Honey Into the Lion’s Skull degli Earth.
Grazie per la vostra musica e per la vostra disponibilità. Potete salutare i lettori di Grind On The Road come preferite.
Grazie mille a voi e ai lettori per l’attenzione. Speriamo di vederci presto.