Ed è finalmente arrivato. Terzo anno e terzo Roadburn Festival per il sottoscritto, che non si è lasciato scappare l’opportunità di vedere dal vivo diversi nomi che non è così facile vedere in un colpo solo. Ci scusiamo per il mostruoso ritardo con cui arriva questo report, ma non è stato facile trascrivere quanto vissuto in quei giorni e allo stesso tempo abbiamo preferito aspettare si raffreddassero un po’ gli animi per evitare di perdersi tra gli innumerevoli articoli usciti nei vari siti di musica. Molti sono stati i cambiamenti nelle ultime edizioni, e forse il più recente e sofferto rimarrà la chiusura definitiva dell’Het Patronaat stage in quanto l’intero stabile è stato venduto e quindi non si sa ancora in che modo quel magico palco sarà sostituito.
Il viaggio complessivo è durato quasi una settimana, dato che abbiamo peferito partire già martedì e concederci un po’ di relax prima della gran sfacchinata. Partenza dall’aeroporto di Treviso che grazie al volo diretto permette di raggiungere Eindhoven in nemmeno due ore. L’arrivo è segnato da un clima abbastanza gradevole seppure non particolarmente soleggiato. Tempo di prendere l’autobus per la stazione centrale che è già ora di acchiappare subito il treno per Tilburg (molto vicino, circa 25 minuti). Prima di raggiungere l’alloggio è doveroso fare un giro in tranquillità senza il caos che arriverà nei giorni seguenti ed è un piacere vedere già numerose bandiere del festival sul breve tragitto che dalla stazione va verso il centro. Va ricordato che il festival è facilmente raggiungibile a piedi in pochi minuti dalla stazione centrale e che seppure diviso in due è comodamente segnalato da cartelli sparsi ovunque. Il primo giorno si conclude quindi con una breve passeggiata dedita anche ad un giro di ricognizione per capire dove sono i nuovi palchi ed una serata a chiacchierare in alloggio guardando Blade Runner.
Durante il nostro secondo giorno a dove compare anche un sole meraviglioso che scalda a dovere. Dopo aver trangugiato un’ottima colazione tipica della cittadina ed ovviamente ad una tappa nel negozio di dischi Sounds Tilburg dove ci saranno discrete razzie. Cominciano a comparire diversi personaggi in total black e l’atmosfera comincia a scaldarsi notevolmente. In serata ci sarà il warm up party, chiamato Ignition, presso il Green Stage (all’interno dello stesso stabile dove c’è anche il Main Stage chiamato 013 Poppodium) che sostituirà il mitico Cul De Sac stage che si trovava all’interno di un piccolo pub. La scelta si rivela azzeccata e permette di avere suoni ottimi come pure più posto ed una visuale migliore. Tre saranno le band che si esibiranno durante la serata.
WARM UP PARTY – 10/04/2019
Ai TEMPLE FANG il compito di aprire il festival e modo migliore per iniziare non c’era proprio. La band vede al basso un personaggio non certo di primo pelo, il bassista/cantante e fondatore dei Death Alley, Dennis Duijnhouwer. Qui si parla di un rock psichedelico fortemente debitore dei ‘70 (Grateful Dead, Hawkwind, Blue Öyster Cult) eppure suonato con una forza espressiva non indifferente. Gli intrecci delle due chitarre sono colmi di gusto e deliziano con un mix di blues e space rock per poi lanciarsi in deliziosi ed evocativi assoli. Non si disdegnano anche virate incendiarie verso certo hard & heavy e pure concessioni allo stoner più fumoso.
Finora la band non ha ancora pubblicato nulla e l’esibizione è stata più una prova per saggiare le potenzialità del sound che si è dimostrato forte e deciso. Seguono poi i GREAT GRIEF dall’Islanda e la musica cambia totalmente ed a quanto pare non entusiasma particolarmente il pubblico. Il quartetto nordico spara sui presenti un micidiale hardcore melodico mischiato ad un metal/emo core e seppure questo tipo di sonorità non sia proprio nelle corde di chi scrive lo show è stato potentissimo e coinvolgente. I quattro giovani ci hanno dato dentro per tutta la loro esibizione (notevole il cantante che saltava di continuo e non perdeva mai colpi sia nello scream/growl che nel pulito). Forse l’unica pecca è l’atteggiarsi un po’ troppo a super band ma nel complesso meritevoli. Nell’attesa dell’ultima band faccio due chiacchiere con i Temple Fang e noto un deciso abbassamento delle temperature che si manterranno a livelli decisamente tosti per tutta la durata del festival.
Arriva quindi il momento degli HELLRIPPER dalla Scozia. Il quartetto è giovanissimo e si dedica in toto ad un black/speed metal old school molto grezzo e scarno, che onestamente non ha spiccato particolarmente anzi, mancava un amalgama forte in favore di tanto caos e pochissima sostanza, nonostante le cavalcate metalliche non fossero così male come pure le scream vocals. In definitiva il peggior gruppo della giornata, divertente ma sicuramente non fondamentale.
Fortunatamente riusciamo ad acchiappare l’ultimo bus notturno per rientrare all’alloggio dove ci si sarebbe dovuto concedere un po’ di riposo – e invece si finisce a chiacchierare fino alle 2 di notte.
DAY 1 – 11/04/2019
Prima giornata effettiva del Roadburn Festival. Dopo un’abbondante colazione prendiamo l’autobus che ferma alla stazione per poi proseguire a piedi. La confusione è decuplicata e l’atmosfera si fa calda e possente. Bisogna prima di tutto segnalare tutte le novità introdotte per permettere anche ai novizi di capire meglio la situazione. I due palchi piccoli presso il Cul De Sac ed Extase non sono più presenti ed il festival è stato praticamente diviso in due tronconi netti. Non è più possibile entrare con lo zaino, che va depositato obbligatoriamente negli armadietti a prezzo comunque popolare. Le zone “cibarie” sono state suddivise anche esse in due. Le due nuove aree sono composte quindi in questo modo:
una prevede l’onnipresente 013 Poppodium che ingloba a sé il main stage ed il green stage mentre all’esterno c’è l’Het Patronaat (come detto dal 2020 non esisterà più). La seconda area invece è la vera novità e si trova a pochi minuti a piedi dallo 013. Bisogna attraversare la strada principale che porta verso la stazione e ci si trova all’interno di una sorta di centro culturale che contiene la zona merchandise, zona ristoro enorme con possibilità di mangiare e bere, zona espositiva con opere tra l’altro di Emma Ruth Rundle e Marissa Nadler ed altri tre palchi che sono Kopelhal (il secondo palco più grande), Hall of Fame e lo Skatepark, per il resto tutto è rimasto uguale.
Arrivato quindi in loco comincerà una vera e propria odissea e corse tra un palco e l’altro per tutti e quattro i giorni cercando di vedere il più possibile. Questo è uno dei grossi problemi di festival di questo tipo, in quanto non si riesce a vedere tutto e a volte nemmeno quello che si vorrebbe veramente, assistendo a piccoli pezzi di show. Altro piccolo neo è il fatto che le band non si gestiscono più il merch e quindi (almeno per il sottoscritto) bisogna studiare delle strategie/tempistiche per ottenere gli agognati scarabocchi sui dischi senza perdere troppo tempo, difficile ma non del tutto impossibile comunque.
Gli italiani SHERPA danno quindi il via al festival nell’Het Patronaat. I sette musicisti da Pescara propongono un’interessante psichedelia occulta con accenni post-rock e propongono uno show decisamente intenso ed oscuro ma la performance è stata segata da dei suoni orrendi pieni di bassi troppo alti e chitarre praticamente azzerate ed è un gran peccato. Si spera in altre occasioni. Il pubblico gradisce e supporterà comunque la band (anzi praticamente tutti i gruppi riscontreranno lo stesso affettom tranne rari casi). Subito di filato al main stage per lo show della new sensation nordica MYRKUR che anziché puntare in uno show metallico e black/pagan/folk metal si concentra in un concerto totalmente acustico assieme ad una numerosa band (con violini, violoncelli e coriste) proponendo pezzi rivisitati in chiave folk ed alcune cover. L’atmosfera diventa magica, la voce della bionda cantante danese fluttua ed accarezza, non mancando di inserire molti momenti ironici che scatenano l’ilarità del pubblico, e gli arrangiamenti sono talmente evocativi che ci si dimentica di essere ad un concerto.
Forse in questa veste la musicista si trova decisamente meglio che in quella più oscura con cui si è fatta conoscere. Non c’è tempo di vedere tutto il concerto perché i CRIPPLED BLACK PHOENIX stanno tenendo un lungo show al Kopelhal. Il combo si presenta con una formazione nuovamente diversa con ben tre sostituti che portano un sound decisamente più duro e quasi di rivalsa rispetto al tiepido show di alcuni anni fa. I suoni sono forti e potenti, forse fin troppo portando il prog metal/post-rock/psych del gruppo verso lidi più heavy. I musicisti sono decisamente in palla e ci danno dentro di brutto, ma personalmente la data di Milano fu decisamente più riuscita ed epica.
Ritorno al main stage per vedere all’opera la nuova band chiamata MOLASSES che vede al suo interno sia la cantante che diversi musicisti dei The Devil’s Blood (band dal sound dark settantiano scioltasi dopo la morte per suicidio del cantante/chitarrista Selim Lemouchi). Il presunto rock psichedelico oscuro dei rinati musicisti, osannati fin troppo da critica e pubblico, appare fin troppo tiepido, senza idee concise ed insapore come se non si sapesse in che direzione andare. La stessa cantante Farida non convince ed in generale il concerto è salvato dai suoni perfetti e dalle buone melodie, ma per il resto non c’è stata l’esplosione sperata. Si vedrà in futuro.
Impossibilitato a vedere le Rakta ne approfitto per andare al Green Stage sia per il concerto psichedelico/dark di TREHA SEKTORI, visionario musicista ambient tra video di rara bellezza ed inserti simil electro/tribali, che per l’esibizione di LINGUA IGNOTA, pseudonimo di Kristin Hayter, artista multimediale, musicista e studentessa che si rivela uno degli highlight del festival nonostante questo show non sia esattamente il migliore del Roadburn. La musica è particolare come pure lo show totalmente al buio. La musicista resterà sempre nascosta al pubblico in qualche anfratto del piccolo palco lasciando che siano gli allucinati video sparati sullo schermo. Ci si trova ad ascoltare echi soul, sprazzi noise/industrial, elettronica, vocals tra pulito etereo e scream lancinanti in un turbine malato e schizzato, una sorta di malessere interiore scagliato in faccia come una gelida coltellata. Ancora turbato dallo show è tempo di dirigersi nuovamente al Kopelhal per la divina EMMA RUTH RUNDLE ed anche qui vige il solito problema di suoni fin troppo “bombardati” e duri che mostrano la musicista, accompagnata da alcuni musicisti di Jaye Jayle, in una versione serratissima ai limiti del metal. Il post-rock/alternative malinconico e sofferto, per non parlare della magnetica e dolente voce, viene spazzato via in favore di un sound troppo metallico rovinando davvero la performance (lo show al green stage di anni prima fu da pelle d’oca). Un vero peccato. Tempo di correre nuovamente al main stage per assistere allo show degli HEILUNG. Parlare di concerto è totalmente sbagliato. Il trio (qui accompagnato da musicisti ed attori sul palco) mette in scena qualcosa che è difficile descrivere a parole. Pare un film ambientato in qualche epoca antica tra sciamani, guerrieri, canti e riti pagani, musiche primordial/folk colme di percussioni e melodie scheletriche. È qualcosa che va oltre tutto, studiato nei minimi dettagli e che sebbene sia poco spontaneo esprime una magniloquenza più unica che rara. La personale giornata sta per finire ma non prima dei giapponesi MONO, accompagnati da un quartetto d’archi presso il Main Stage. Il post-rock del quartetto nipponico sebbene possa risultare statico per il suo seguire una continua linea stabilita, senza allontanarsi particolarmente da essa, viene comunque esaltato da suoni celestiali e la riproposizione integrale del classico Hymn to the Immortal Wind mette d’accordo il numeroso pubblico presente generando sensazioni che difficilmente abbandoneranno la mente degli spettatori.
Il finale della giornata sarà dedicato a PHARMAKON, altra bella donna dedita al noise/industrial in maniera simile a Lingua Ignota. In realtà la musica di Margaret Chardiet è molto più rumorosa e poco incline al lato melodico, specie nello show del Roadburn dove viene dato risalto alla parte più violenta e distorta. Il viaggio sonoro della musicista è doloroso, catartico e dedito al buttare fuori i propri demoni interiori senza compromessi. Dopo lo show è tempo di rientrare all’alloggio e riposare perché le altre giornate non saranno da meno.
DAY 2 – 12/04/2019
Inizia un’altra giornata in quel di Tilburg. Ovunque è pieno di appassionati che affollano ristoranti e bar a tutte le ore del giorno fino a notte tarda. Un’altra considerazione negativa va fatta. Il numero di paganti è notevolmente aumentato rispetto agli anni passati e la situazione è peggiorata in quanto ad affluenza nei vari palchi. In più di un’occasione non si riesce a vedere uno show a meno che non ci si prepari mezz’ora prima davanti all’entrata. Considerato il notevole prezzo del biglietto la situazione si rivela parecchio discutibile. Nonostante le aggiunte di palchi con capienza più grande il problema persiste e si rischia anche di non riuscire ad uscire dalle stanze più piccole finché lo show non finisce. Bisognerebbe trovare un sistema di risoluzione che si spera arrivi presto. Oggi si inizia presto presso l’Het Patronaat con i GOLD. Il combo di Rotterdam propone un sound decisamente intrigante e difficile da classificare. Splendide vocals femminili decisamente dark/gothic rock si intrecciano con uno sub strato che pesca dal post-rock (a volte anche con qualche bordata metallica) ed anche da certa new wave/post-punk. L’ibrido convince risultando sfizioso e perfettamente godibile senza essere melenso o troppo easy nascondendo al suo interno tanti piccoli particolari. I suoni fortunatamente sono discreti e permettono di godere al meglio del concerto che fa da supporto al loro nuovo disco Why Aren’t You Laughing?. Bisogna correre subito al main stage per assistere ad uno degli eventi speciali che spesso il Roadburn propone, i TRYPTIKON capitanati dal buon Tom G.Warrior dei Celtic Frost assieme a Metropole Orkest (orchestra) e Kobra Ensemble (cori) per l’esecuzione del Requiem. Qui bisogna dare un minimo di spiegazione.
Il Requiem è una composizione che risale al lontano 1986 ed era divisa in tre parti. Una delle tre finì nel disco dei Celtic Frost Into The Pandemonium sotto il nome di “Rex Irae”. L’idea era di registrare le altre due parti e pubblicare tutta l’opera in forma di EP nel 1988 ma a causa delle diatribe con la casa discografica e vari problemi fece finire band e progetto nell’oblio nel 1987. La band ricomparve nel 2001 e venne registrata la terza parte del Requiem a nome “Winter” che finì nell’album Monotheist del 2006. Rimaneva ancora la seconda parte che però rimase solo un’idea finché nel 2018 Tom venne contattato dal fondatore del Roadburn (Walter Hoeijmakers) che propose l’esecuzione dal vivo del Requiem. Fu lì che l’opera venne finalmente completata ed il concerto ha visto quindi sul palco band, orchestra, direttore d’orchestra, coriste ed una voce femminile extra portentosa (purtroppo non sono riuscito a individuare il nome della cantante). Un concerto molto particolare, epico, contorto e cerebrale dove le parti metalliche erano un pochino soffocate dall’ampollosità delle parti orchestrali. Tom è sempre rimasto nel suo angolino quasi nascosto lasciando che tutti avessero il proprio spazio. Difficile dare un’opinione oggettiva per l’alto grado di sperimentazione eppure tutti hanno goduto di ciò. Si presume che uscirà un dvd/cd dato che c’erano le telecamere sul palco. Riguardando il concerto si riuscirà ad avere un pensiero migliore. Ancora galvanizzato dal concerto devo correre immediatamente da tutt’altra parte per vedere un’altra musicista, A.A. WILLIAMS, presso l’Hall Of Fame stage. Probabilmente il nome non dirà nulla a nessuno in quanto la mora cantante/chitarrista, che aprirà i concerti durante il nuovo tour dei Cult of Luna, è un nome nuovo ma ha già le carte in regola per sfondare. Musicalmente e vocalmente il sound è un mix di Emma Ruth Rundle e Pj Harvey combinato al post-rock, psichedelia ed un certo dark pop. Viene praticamente presentato il primo EP, un sublime concentrato di melodie oscure e pennellate psych che fanno viaggiare la mente mentre l’eterea voce chiude il cerchio. Show davvero meraviglioso. Bisogna muoversi per non perdere un’altra dea che si sta esibendo al main stage. Bisogna dire che questa edizione ha visto sugli scudi numerose donne che hanno davvero fatto faticare i maschietti sul dominio dei palchi. Arriva poi l’ennesimo colpo al cuore ossia la performance di ANNA VON HAUSSWOLFF, giovane musicista svedese con band al completo. Non ci sarebbe nemmeno molto da dire se non che, grazie a suoni mastodontici, il sound di Anna (mix tra drone, doom, stoner, cantautorato, gothic/dark) spaventa per quanto è epico anche per merito dell’organo suonato dalla stessa musicista, che si prodiga anche con l’armonica e la chitarra, e da un approccio sonoro perfettamente equilibrato tra bordate rock/metal e melodie da orgasmo cerebrale sempre graziate dai vocalizzi oscuro/eterei. Uno dei concerti apice del festival per il sottoscritto. Durante l’arco della giornata non sono stati pochi i momenti che hanno visto numerosi musicisti girare per il festival e fortunatamente molti dei preferiti del sottoscritto gli sono passati vicino ed è stato un piacere farci due chiacchiere.
Segue poi il concerto dei GRAILS sempre presso il main stage che appaiono fin troppo stereotipati con quella psichedelia mista a space rock e qualche discreto intermezzo melodico. Concerto abbastanza piatto, senza brividi e con troppi cliché del genere.
Poi abbiamo dovuto dividerci tra due concerti. Primo fra tutti gli AT THE GATES presso il Main Stage, palco tarato per act ben più “leggeri”, fatto che ha esposto qualche problema. Gli svedesi promettevano fuoco e fiamme con il loro death metal melodico ed invece uscivano dei suoni da concerto pop! Non si capisce bene come una band di questo tipo che dovrebbe tirare giù i muri (Tomas pareva molto affaticato vocalmente, molto al di sotto delle sue possibilità) sia stata svantaggiata da un lavoro al mixer che ha segato le gambe a tutto. E dire che in pochi se ne sono accorti e c’è da specificare che tra il pubblico c’era Mikael Stanne dei Dark Tranquillity (presente ogni anno) gasatissimo in prima fila, come anche Lee Dorrian dei Cathedral.
La band ci dava dentro ma purtroppo non c’è stato nulla da fare. Misteri. Fortunatamente ci pensa il secret show di LINGUA IGNOTA presso lo Skate Park a risollevare la situazione incrementando ancora di più il senso claustrofobico e di schizofrenia mentale nella sua musica. Tutti abbiamo goduto della sua presenza – a sorpresa una biondina piccolina, personalmente non mi aspettavo tale presenza fisica – tutti in piedi intorno a lei che si dimenava come una posseduta. Lei probabilmente è stato l’ennesimo apice del festival nonché sorpresa positiva.
Persi purtroppo i conterranei Messa per colpa di una fila chilometrica mi dirigo nuovamente al main stage per curiosità verso i LOOP. Il quartetto è inglese, arriva dagli anni 80’ e si è sciolto nel 1991 per poi riformarsi nel 2013. Musicalmente ci si trova al cospetto di uno space rock mescolato con la psichedelia ed il noise ma ciò è abbastanza riduttivo. Quattro musicisti non più giovanissimi salgono sul palco e non ce n’è più per nessuno. È assoluta catarsi nel giro di pochi minuti dove tutto è posizionato perfettamente. Le canzoni sono avvincenti, il muro di chitarre è qualcosa che farebbe impallidire chiunque e la sezione ritmica (basso in primis) è roba da 90 minuti di applausi. Il lavoro melodico, le bordate più asciutte e rock, la voce ipnotica e gli assoli sono pura scuola di musica e spiace aver visto la sala mezza vuota quando si sono esibiti quelli che sono i veri vincitori dell’intero Roadburn senza nemmeno aver sentito le band degli altri giorni. Band superlativa che consiglio anche a chi odia lo space rock psichedelico. Non potevo non aspettare la band per salutarla e ciò mi ha reso felice mandandomi a letto con il sorriso in attesa della terza giornata.
DAY 3 – 13/04/2019
Terzo giorno al Roadburn. Il freddo continua nonostante qualche intermezzo più soleggiato. Dopo colazione ci si dedica ad una passeggiata in centro prima dell’inizio delle ostilità. Si notano già diverse facce stanche, stravolte per la fatica e per le numerose birre ingurgitate. Due paroline sugli stand di cibo fuori dal festival che richiedono obbligatoriamente i token, ovvero i gettoni: a parere di chi scrive vanno evitati tutti, tranne quello delle patate fritte che era ottimo, per la scarsa qualità e per i prezzi non proprio abbordabili. Va detto che in generale dall’Olanda in su è tutto carissimo specie nei ristoranti, però non necessariamente bisogna ricorrere sempre al supermercato. Consiglio spassionato è di andare nei ristoranti del centro o sulle vie vicine per mangiare decisamente meglio.
Ci pensano gli HAVE A NICE LIFE a dare il via al Kopelhal Stage. Il mix sonoro è stracolmo di sfumature come il post-rock, il post-punk, ambient ed industrial. Di base la band sarebbe un duo composto da Dan Barrett e Tim Macuga, qui accompagnati da alcuni turnisti, ma lo show nel complessivo appare spento e noioso soprattutto nelle parti atmosferiche. Durante le parti più pestate e violente le quotazioni migliorano grazie anche ad una bella voce seppur non incisiva. Un minestrone discreto ma non così memorabile come ci si aspettava. Seguono poi al Green Stage i FONTAN dalla Svezia. Il terzetto spara sui presenti un bastardissimo funky psychedelic rock molto ballabile con basso, tastiere e chitarra. Lo show non è affatto male, acido al punto giusto con dei bei beat elettronici dal sapore quasi tribale il tutto inglobato dentro un approccio quasi prog. Pazzi e divertenti. Mosso dalla curiosità mi sposto presso il Main Stage per vedere i WOLVENNEST, anche essi osannati da critica e pubblico ed in questi casi la paura ed il rischio sola sono molto alti. E difatti così è stato. Un concerto piattissimo orientato verso un banale post-rock/metal dai tratti oscuri e psichedelici con una voce femminile espressiva quanto un muro di cemento e fiacchissima. Il lavoro melodico non sarebbe neanche male ma nel giro di pochi brani la noia è sopraggiunta senza pietà.
Per fortuna i WITTE WIEVEN riportano il sorriso all’Het Patronaat (oggi dedicato principalmente al black metal). Il combo olandese suona un black metal dalle forti tinte pagan/folk con diverse sfumature epiche e con una dolce voce femminile. E la musica esce che è un piacere, fresca quanto basta, potente il giusto e piena di melodie ben fatte che riescono a rimanere in testa e a gratificare gli ascoltatori con atmosfere magiche. Davvero una bella scoperta. HENRIK PALM presso il Green Stage intrattiene gli astanti con il suo hard rock settantiano pieno di tastiere ed a volte tendente all’heavy rock. Sicuramente un concerto di qualità ma che alle orecchie del sottoscritto non ha trasmesso nulla apparendo solamente come discreto senza amplessi sonori parendo quasi come un’ombra sbiadita. Si ritorna poi al Main Stage per assistere ad uno dei presunti apici del festival, i SUMAC che hanno visto il proprio banchetto svuotato in poco tempo, segno che la band è amatissima. La super band, che vede alla voce e chitarra sua maestà Aaron Turner degli Isis, forte di suoni all’altezza fa esplodere una bomba nucleare addosso a tutti gli ascoltatori. Il problema però è un senso straniante di staticità e troppo di già sentito. Nonostante il post-metal sia violento, dritto (molto hardcore) e rumoroso al massimo senza concessione a melodia ma alla totale devastazione, non si sente una gran differenza tra un pezzo e l’altro. Pareva di sentire lo stesso brano ripetuto all’infinito e sicuramente faceva il suo sporco effetto, ma da chi pretende qualcosa di più il concerto non è stato così eccezionale come ci si aspettava. Il sottoscritto si terrà caro l’ultimo show degli Isis in Italia prima dello scioglimento.
Allo Skatepark Stage vengono aggiunte le DOODSWENS, duo femminile batteria/chitarra dedito ad un black metal grezzo e primordiale, quello più marcio e putrido senza melodie o produzioni pompate e pulitissime. Purtroppo non bastano il face painting ed un approccio aggressivo per mettersi in mostra ed alla fine dei conti le due giovani ragazze non spiccano particolarmente perdendosi in qualcosa che non conoscono ancora bene. Nel corso della giornata si spazia continuamente da un palco all’altro assistendo a concerti come quello dei MYSTIC SUNSHIP (saranno tre gli show nel corso del festival) che incendiano i palchi dovunque suonino presentandosi compatti e potenti, LASTER (presso l’Het Patronaat) con il loro post-black metal venato di melodia ai limiti del post-punk rivelandosi parecchio bizzarri ma interessanti oltre che mascherati, i THE EXORCIST GBG al Green Stage infiammano i presenti con un electro/disco/funky dal groove mostruoso dettato dal basso e mischiato a tanta psichedelia ed infine gli OSTINATO presso l’Hall Of Fame stage con un discreto shoegaze/post-rock con qualche parte più heavy/stoner. Sul Main Stage i CAVE IN paiono in ottima forma sparando sul pubblico il loro alternative metal per nulla banale ed a volte decisamente sperimentale e dinamico con ospite alla voce Jacob Bannon dei Converge per qualche comparsata, altro personaggio fisso del festival, presente sempre al merchandise. Le ore passano senza che ci si renda conto e gli ultimi show sono dedicati principalmente all’amico CONNY OCHS che è costretto a suonare in contemporanea con gli Sleep.
Eppure l’Hall Of Fame Stage è discretamente affollato e Conny incanta i presenti con la sua magnetica voce ed i suoi arrangiamenti di chitarra/tastiera sempre in bilico tra blues e pop a tinte grigio/malinconiche. Impossibile non restarne incantati ed ogni volta la qualità dei concerti migliora come pure i dischi pubblicati. A malincuore mi tocca schizzare via verso il Main Stage per vedere un pezzo del primo set degli SLEEP che privilegia il leggendario album Sleep’s Holy Mountain. I suoni a dirla tutta non sono dei migliori ma tutti e tre i musicisti ci mettono l’anima per tirare giù i muri con il loro stoner/doom mastodontico modello carro armato. Non riesco a godermelo del tutto causa stanchezza ma soprattutto perché sul Green Stage sarà presente un’altra voce femminile che merita attenzione ossia LOUISE LEMÓN. La biondona svedese si presenta con un abito sexy ma elegante e fortunatamente c’è pure molta sostanza, in quanto il soul/gospel/pop mischiato a qualche accenno rock convince ed ammalia. La voce non ingrana subito ma quando si scalda mostra una forza espressiva ed una consapevolezza davvero potenti che lasciano sbalorditi. Purtroppo a pochi ha interessato il concerto e la sala si presenta praticamente mezza vuota, ma i presenti hanno davvero goduto ascoltando canzoni suonate egregiamente e composte con gusto e calore.
Tempo di fare una sosta al merchandise e fare due chiacchiere con Louise che attaccano i DOOLHOF al Kopelhal. Il trio è formato da Aaron Turner (Sumac), Will Brooks (Dälek) e Dennis Tyfus e offre un concerto malatissimo, sperimentale, cerebrale e schizzato allo stesso tempo. È difficilissimo pure classificare ciò che i tre musicisti hanno suonato data la totale libertà compositiva che si sono presi. Indecifrabili. L’ultimo concerto della giornata è una piccola chicca che in pochi hanno deciso di concedersi ovvero JAYE JAYLE. Dopo aver supportato Emma Ruth Rundle sia in tour che sul palco stesso del Roadburn il quartetto americano sciorina una prestazione di qualità assoluta. Si immagini un sound alla Tom Waits incrociato con con il blues più cupo, rock alternativo, psichedelia ed una certa venatura gotica. Musica raffinata, suonata divinamente e con un piglio da rocker consumati che non guasta mai. Uno degli apici del festival sono stati sicuramente loro! Tempo di salutarli e si ritorna a letto in attesa della purtroppo ultima giornata.
DAY 4 – 14/04/2019
Pare strano che sia l’ultimo giorno eppure è così. Dopo diversi giorni ci si aveva fatto l’abitudine staccando la spina dalla dura realtà come se non esistesse altro. Molti sono rientrati a casa o sono in partenza e personalmente questa giornata è la mia preferita, perché c’è meno gente e si riesce a godersi meglio i concerti senza troppo caos. La mattina è dedicata a preparare in anticipo i bagagli per il ritorno, ma il tempo è tiranno perché verso le 13:00 c’è un interessante intervista nelle vicinanze dello 013 Poppodium dove il fondatore del Roadburn Walter Hoeijmakers ed il direttore artistico/curatore per l’edizione 2019 Tomas Lindberg (At the Gates) risponderanno alle domande di addetti ai lavori e fan. È stato davvero stimolante sentir parlare Walter in merito a tutte le rogne che bisogna sorbirsi per mettere su un festival di quel tipo ma allo stesso tempo si sprofonda nello sconforto se si pensa alla situazione italiana che se si trovasse un festival così difficilmente farebbe il sold out. Dopo aver stretto la mano ad entrambi bisogna muoversi e dirigersi subito al Green Room Stage per i LUCY IN BLUE. Il trio offre un sound di prog psichedelico decisamente melodico e vellutato che appare fin troppo leggero/soporifero ma per fortuna qualche accelerata più dura e qualche accenno jazzato rendono la musica più dinamica e variegata. Concerto discreto ma nulla di più. Va meglio con i FEAR FALLS BURNING all’Het Patronaat che danno vita a qualcosa di intenso e nerissimo ossia un jazz/drone psichedelico asfissiante ed allo stesso tempo spirituale dove il mastermind Dirk Serries è accompagnato dal sassofonista Colin Webster, Tim Bertilsson (Switchblade) alla batteria e Per Wiberg (Spiritual Beggars, ex-Opeth) alle tastiere. Un combo davvero interessante che va rivisto in un contesto più intimo ma che comunque ha mostrato parecchi motivi di interesse.
Di corsa poi al Green Room Stage, nuovamente mezzo vuoto per MJ GUIDER progetto che vede all’opera la cantante/chitarrista Melissa Guion accompagnata per le date live da una tastierista (davvero sexy bisogna ammetterlo) ed un bassista. Lo shoegaze elettronico proposto dalla band è decisamente intrigante contaminato da atmosfere ambient dove la dolce ugola di Melissa accarezza gli animi dei presenti. Show decisamente breve ma molto intenso.
Curioso mi avvio poi al Main Stage per vedere all’opera i DAUGHTERS da Providence. Nonostante il sound non sia esattamente nelle corde del sottoscritto la band spazza via tutto e tutti con una performance di alto livello dove il cantante non faceva che andarsene in giro tra palco e banconi del bar. Difficile anche etichettare la band in quanto mescola tantissime cose nella propria musica come il noise, il punk, alternative, mathcore e più ne ha più ne metta. Eppure tutto funziona senza forzature e pone il gruppo americano tra i migliori della giornata. Da rivedere!
Gli STUCK IN MOTION al Green Room Stage non impressionano particolarmente con un discreto prog psichedelico con melodie settantiane che ricordano non poco i Pink Floyd. I THOU al Main Stage invece mettono a ferro e fuoco il festival con un feroce sludge putrido e violento con ben tre chitarre sul palco che però paiono abbastanza inutili quando ne sarebbe bastata una. Forte di diversi show lungo tutto l’arco del festival il combo statunitense non fa prigionieri inglobando nelle proprie sonorità anche il crust e l’hardcore. Segue poi un intermezzo di poesia dark con MARISSA NADLER all’Het Patronaat. La mora musicista, impegnata anche alla chitarra, tranne qualche aiuto sporadico di un secondo chitarrista è la sola protagonista del concerto che si rivela molto intimo ed atmosferico. Tante le influenze nelle corde (vocalmente è una mezzo soprano) della musicista, attiva da non pochi anni nella scena indie, che spaziano dal folk, al pop oscuro, alla psichedelia e ad una certa avanguardia gotica molto placida ma non trascurabile. Uno show non privo di pecche causa qualche momento di stanca ma nel complesso valeva la pena esserci.
Manca poco alla fine ed il sottoscritto ha preferito prendersela con calma senza stress per vedere per forza tutto. Il penultimo concerto previsto è presso il Green Room Stage per vedere all’opera i BOSSK che si cimentano nell’esecuzione dell’album Audio Noir. Praticamente il quintetto risulta uguale al disco riproponendo in tutto e per tutto il disco con i suoi pregi ed i suoi difetti. Il post-metal del gruppo appassiona molto il numeroso pubblico presente che non smette mai di applaudire segno che la fame per il genere non tende a scemare.
Ed arriva il gran finale con il secondo set degli SLEEP dedicato all’ultimo album The Sciences. Al Cisneros è una colonna ed il suo lavoro al basso è roccioso e duro come il marmo mentre il buon Matt Pike, nonostante i problemi per il diabete e l’amputazione di un dito del piede, con la sua chitarra è un concentrato di ignoranza, old school e potenza infinita. Ma forse colui che ha rappresentato la vera sorpresa è stato il batterista Jason (dei Neurosis) che ha messo in mostra una tecnica ed un groove pazzeschi oltre che una versatilità mostruosa dimostrandosi come uno dei migliori batteristi sulla scena. Lo stoner/doom del trio è lentissimo, ipnotico e stordente, forse impenetrabile ma che quando trapassa i neuroni è finita. Impossibile restare indifferenti a tanta bellezza che ha messo la parola fine (almeno per me) alle lunghe ore di concerti nei giorni passati.
È stato poi un onore riuscire a stringere la mano a tutti e tre dopo il concerto. Matt poi pare tanto truce ma sotto sotto è un musicista con cuore e passione da vendere che non lesina di farsi quattro risate con qualcuno.
È tardi ed il giorno dopo bisogna prendere autobus, treni, aerei e la macchina per rientrare, colmo di foto, souvenir e tanti dischi, ma come sempre ne è valsa la pena. Arrivederci Roadburn!