Karyn Crisis è una di quelle artiste/cantanti sottovalutate o peggio ignorate dalla massa, ma anche da chi magari è appassionato di musica. Partita con i Crisis (per chi non li conoscesse sono assolutamente da riscoprire!) dal 1993 al 2006 si sposta poi negli Ephel Duath (per poi sposarsi con lo stesso chitarrista della band) per un po’ di anni per fondare in seguito il suo vero e proprio progetto solista chiamato Karyn Crisis’ Gospel Of The Witches. Nel 2015 esce il primo album The Alchemist seguito oggi da questo Covenant, che risulta molto più curato a livello di arrangiamenti e la miscela di post-metal e doom occulto risulta ancora più convincente, sebbene ci siano comunque delle falle.
L’opener “Womb of the World” offre un inizio feroce con una chitarra violenta che accompagna la furia vocale di Karyn, che però non è mai statica ma anzi varia di continuo il timbro vocale tra vocals potenti, eteree e più estreme senza perdere mai un’oncia di autorità. La musica, come detto, è un mix di post-metal apocalittico che flirta con un doom dal sapore gotico/occulto con una decisa attenzione alla melodia che non manca mai. Tale musicalità si fa placida in molti momenti come le atmosfere delicate di “Drawing Down the Moon”, la magnifica “Silver Valley” (altamente emozionale), la notturna “The Hours” o la sognante “Circle of the White Light” ma anche la finale “Blood of the Mother”. Qui salta all’orecchio il primo problema. Troppi intermezzi da pochi minuti quando mettendo insieme il tutto o integrandolo in altri brani sarebbero potuti venir fuori risultati strabilianti. Difatti l’intera band non pecca di composizione o tecnica strumentale, ma pare abbia quasi paura di osare, accorciando il minutaggio e tagliando i brani per timore che risultassero troppo complicati. Pezzi come “Stretto di Barba”, con note che trasmettono un malessere sempre più forte grazie anche a ritmiche minimali e dolenti, o l’invocazione simil-pagana “Benevento” sono allo stesso tempo ricchi di dettagli e troppo frettolosi, dato che non si prendono il tempo necessario condensando troppo in pochi minuti. Il risultato è che ci si trova spaesati e pure riascoltando i brani si sente che qualcosa non torna del tutto. Fortunatamente non sempre è così dato che alcune canzoni più quadrate funzionano meglio come la melodicamente oscura “Dea Iside” o i chiaroscuri di “Great Mothers” e “Janara” (dai tempi sfibranti), ma la vera perla del disco è “Diana Mellifica” grazie ai suoi saliscendi emotivi talmente meravigliosi che ci si dimentica di ogni difetto grazie anche ad un intreccio chitarra/sezione ritmica armonicamente mostruoso. Il suono è sempre pulitissimo e cristallino e si riesce a godere appieno di ogni sfumatura per quanto qualche inceppo nell’ingranaggio globale ci sia.
Covenant è un album fatto con cuore e passione, underground e sicuramente con dei difetti ma che non ha niente da invidiare a gruppi ben più osannati. Da avere comunque!
(Aural Music, 2019)
1. Womb of the World
2. Drawing Down the Moon
3. Stretto di Barba
4. Silver Valley
5. Great Mothers
6. Benevento
7. Dea Iside
8. Janara
9. The Hours
10. Diana Mellifica
11. Circle of White Light
12. Blood of the Mother