Chi scrive conosce e segue i vicentini Mother Island da parecchi anni. Il quintetto veneto fin dagli esordi ha ottenuto un riscontro commerciale non indifferente. Lodati da molte zine, sia per la musica che per le esibizioni live e da un pubblico appassionato, i musicisti dopo il ritorno dal tour nella West Coast statunitense si sono dedicati alla composizione del qui presente Motel Rooms. Le premesse sarebbero di un’innovazione nel sound tipico della band (jangle pop mischiato a leggere tinte psichedeliche) che porterebbe la musica verso lidi più italici sempre inseriti in un contesto surf rock.
Bisogna porsi alcune domande prima dell’ascolto. C’è la così detta maturazione? Il sound si è evoluto? I difetti che la band aveva in passato sono stati risolti? Ci sono stati dei miglioramenti? Assolutamente no! Fin dal primo album (Cosmic Pyre del 2015) continuando poi con il secondo (Wet Moon del 2016) la band ha sempre proposto gli stessi schemi, un pop modello britannico unito ad un’innocua psichedelia molto leggera entrambi rivisti in un’ottica anni 60’. Sulla carta le idee non sarebbero neanche male ma ci sono determinati problemi che minano il risultato come pure il nuovo album. Troviamo le medesime pennellate di chitarra colorate e frizzanti che non cambiano mai, una voce femminile piattissima ed incolore che vorrebbe essere calda e sexy ma fallisce miseramente rimanendo sulla stessa linea vocale mentre la sezione ritmica, seppure placida e “romantica”, non impenna mai rivelandosi moscia (“Till The Morning Comes”). La staticità compositiva non si è mai sbloccata negli anni lasciando che le canzoni scorrano lente e noiose e neppure accelerando si ottengono effetti positivi (“Eyes of Shadow”). Gli stessi ritornelli hanno la stessa freddezza delle strofe ricercando la raffinatezza ma risultando infine spenti. Tutto viene ripetuto in loop, tutto appare ripetuto fino allo sfinimento e la noia arriva inesorabile. A poco servono le derive country/morriconiane di “We All Seem To Fall To Pieces Alone” o “Lustful Lovers” perché anche quelle perdono vigore dopo pochi attimi facendo capire all’ascoltatore che il gruppo non riesce a tenere insieme la musica per più di qualche minuto se non, purtroppo, meno. Raramente si riesce a distinguere una canzone dall’altra se non per qualche parte leggermente più dura come “Dead Rat” o qualche melodia più riuscita come l’interessante “Demons”. Per riproporre in veste personale una musicalità figlia di un’epoca passata ci vogliono attributi enormi per risultare convincenti ed al momento i Mother Island non sono ancora in grado di “spaccare” nonostante una tecnica più che buona.
Tanto fumo specie nell’estetica e nella simil-diva alla voce con pochissimo arrosto. Rimane solo un misero contorno per riempire lo stomaco ed al terzo album non ci si può ritrovare in queste condizioni. La maturità non è ancora arrivata, gran peccato!
(Go Down Records, 2020)
1. Till The Morning Comes
2. Eyes Of Shadow
3. And We’re Shining
4. Summer Glow
5. We All Seem To Fall To Pieces Alone
6. Demons
7. Song For A Healer
8. Santa Cruz
9. Dead Rat
10. Lustful Lovers