Anno 2019. In quel di Bologna tre figuri della scena underground consolidano le proprie idee e decidono di mettere in piedi gli Iqonde, termine della lingua Zulu che significa “dritto”. La realtà dei fatti non corrisponde del tutto al significato del nome data la complessità della proposta sonora, ma probabilmente è stata la forte ironia del gruppo a prevalere. Il miscelare il noise rock con un certo immaginario dell’Africa Nera è tutt’altro che a senso unico ma in questo debutto chiamato Kibeho ciò che è “dritto” sono proprio le idee su cosa si voglia suonare. Il titolo dell’album è tutto un programma, in quanto Kibeho è una piccola città nel sud del Ruanda, che divenne nota al di fuori di quel paese a causa delle presunte apparizioni della Beata Vergine Maria e di Gesù Cristo avvenute tra il 1981 e il 1989.
Il trio nostrano è voglioso di dare dei messaggi, o forse di far riflettere, con dei titoli delle canzoni che potrebbero essere enigmatici ma in fondo, a detta loro, l’importante è “rendere visibile l’invisibile” mettendo in primo piano per l’appunto la sezione ritmica (spesso invisibile) ed usando la chitarra a mo’ di collante o magari come tavolozza dei colori (“Ma’nene”, il rituale indonesiano in cui i morti vengono riesumati dalle tombe per fare festa con la famiglia). I giri di basso e batteria si fanno sempre più ingarbugliati e soffocanti a partire già dalla seconda traccia “Marabù” (un uccello africano) dove si fanno largo il math rock (la sei corde non disdegna nemmeno qualche incursione funky) e derive liquide tipiche del post-rock creando un ibrido pieno di cambi di tempo schizzati ed atmosfera. In “Edith Piaf” (pseudonimo di Édith Giovanna Gassion, denominata “Passerotto” per la sua statura minuta) il basso di Diego si fa lento ed asfissiante mentre la chitarra di Francesco tira fuori un senso di tragedia nelle sue melodie solitarie. Le rimanenti tre tracce sono ancora più colme di dettagli passando da marce funebri disperse nello spazio (“Lebansho” con i suoi saliscendi emotivo/rabbiosi) a fragorose esplosioni apocalittiche (“Gross Ventre”) fino alla malvagità di “22:22”, con una traccia audio presa da “Salò o le 120 giornate di Sodoma” ed un apparato strumentale a base di pennellate di chitarra velenose e ritmiche sempre più deviate fino ad un finale melodico che sfuma. Sarebbe stato interessante che la batteria di Marco sviluppasse di più le influenze africane che vengono solamente abbozzate, ma in fin dei conti è un esordio e si può soprassedere.
Kibeho è un’altra conferma di quanto l’underground nostrano sia vivo, vegeto e soprattutto competitivo e che meriterebbe di essere molto più considerato. Ottimo inizio!
(Grandine Records, 2021)
1. Ma’nene
2. Marabù
3. Edith Piaf
4. Lebansho
5. Gross Ventre
6. 22:22